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Che succede nell’eurozona dopo la fine del Qe imposto dalla Bce?

Manovra Commissione Ue

L’analisi di Eleonora Mazzoni per i-Com sulla fine del Qe prevista dalla Bce

È stata una riunione piena di aspettative quella del Consiglio Direttivo della Banca centrale europea tenutasi mercoledì, che apre e ridefinisce una nuova fase della politica monetaria, in particolare riguardo alle misure non convenzionali, meglio note come Quantitative Easing (QE). Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha confermato che il programma di acquisti netti di titoli di stato e obbligazioni societarie da parte della Bce terminerà con il mese di dicembre. Nonostante ciò, i tassi di riferimento sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la stessa banca centrale rimarranno invariati rispettivamente allo 0,00%, allo 0,25% e al -0,40% almeno fino all’estate del prossimo anno.

L’OBIETTIVO DELLA BCE

L’obiettivo è continuare a sostenere il percorso e la convergenza dei tassi di inflazione dei Paesi dell’eurozona verso un valore inferiore ma vicino al 2%. La Bce seguiterà a reinvestire completamente il capitale rimborsato sui titoli in scadenza nel quadro del PAA (il programma ampliato di acquisto attività) per un prolungato periodo di tempo dopo la conclusione degli acquisti netti di attività e, comunque, sino a quando ritenuto necessario al fine di mantenere condizioni di liquidità favorevoli e un ampio grado di accomodamento monetario. Questo significa, in estrema sintesi, che il programma di acquisti netti terminerà ma lo stock di titoli acquistato sino ad oggi non verrà dismesso, resterà bensì costante e il capitale rimborsato a scadenza sarà reinvestito nell’ambito dello stesso programma. Gli acquisti previsti dal Qe si dicono infatti “netti” nel senso che aumentano le dimensioni del bilancio e sono aggiuntivi rispetto al reinvestimento del capitale rimborsato dei titoli che scadono nel portafoglio della Banca centrale.

UNA POLITICA MONETARIA ACCOMODANTE

La politica monetaria, ha sottolineato Draghi, resterà dunque accomodante e, soprattutto, flessibile. L’assenza di un termine specifico per il rialzo dei tassi e di una definizione precisa di periodo “prolungato” per il reinvestimento del capitale rimborsato sui titoli in scadenza nell’ambito del PAA lascia difatti un ampio margine di intervento.

Già nel mese di giugno 2018 la Bce aveva annunciato che il ritmo mensile degli acquisti netti nell’ambito del programma di acquisto di attività sarebbe stato ridotto a 15 miliardi di euro da ottobre a dicembre 2018 e in seguito, si prevedeva, che gli acquisti netti sarebbero giunti a termine se i dati più recenti avessero confermato le prospettive di inflazione a medio termine. A ottobre il Consiglio direttivo della Bce aveva deciso effettivamente che gli acquisti netti nell’ambito del PAA sarebbero proseguiti al nuovo ritmo mensile di 15 miliardi di euro sino alla fine di dicembre, rinnovando la prospettiva di terminare il QE dopo la fine dell’anno.

LO SCOPO DEL QE

Lo scopo dichiarato del Quantitative Easing era ripristinare una corretta trasmissione della politica monetaria stimolando l’economia e riportando l’inflazione nei dintorni del 2%. In estrema sintesi infatti, l’inflazione è uno specchio della crescita: un’inflazione sana deriva da una maggiore domanda per consumi e investimenti. In condizioni normali le banche centrali tengono sotto controllo l’inflazione attraverso la variazione dei tassi di interesse di riferimento. Il QE è stato invece avviato nel 2015 come strumento di politica monetaria non convenzionale, per contrastare i timori di deflazione e accelerare l’uscita dalla crisi dell’area euro. Attraverso l’acquisto di titoli di Stato e obbligazioni societarie, i rendimenti a medio-lungo termine si abbassano, il costo del denaro si riduce, supportando il credito all’economia reale e sostenendo la crescita.

DRAGHI TIRA LE SOMME

Oggi, a distanza di tre anni e mezzo, ha confermato Draghi, l’inflazione è inferiore ma vicina al 2% nella media dei paesi dell’eurozona, anche se l’inflazione cosiddetta di fondo, depurata delle componenti più volatili dei prezzi (come alimentari, energia, alcool e tabacchi) è pari attualmente solo all’1,1% (variazione tendenziale, novembre 2018/novembre 2017). Guardando l’andamento dell’indice dei prezzi HICP si nota la permanente differenza tra la crescita dell’indice complessivo dei prezzi e la dinamica dell’indice depurato dai beni energetici e degli alimentari, alcool e tabacchi, che evidenzia come l’inflazione sia significativamente trainata dai prezzi dell’energia a partire dal mese di ottobre 2016. I dubbi riguardano dunque gli effetti del calo dei prezzi energetici già in essere sull’inflazione dell’area euro. In Italia il tasso di inflazione è complessivamente inferiore rispetto alla media dell’eurozona, e pari all’1,7% (variazione tendenziale, novembre 2018/novembre 2017). L’inflazione al netto dei prezzi dei beni energetici in Italia non sale al di sopra dell’1,3% dal 2014 e a novembre 2018 è pari allo 0,9%.

PREOCCUPAZIONI SULLA CRESCITA

Le preoccupazioni che hanno anticipato la riunione del Consiglio Direttivo riguardano naturalmente anche la crescita dell’eurozona che ha perso slancio durante l’anno in corso, con una decelerazione diffusa tra i Paesi membri. Nel terzo trimestre dell’anno il prodotto interno lordo dell’area euro cresceva dell’1,6% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, mentre nell’ultimo trimestre del 2017 il tasso di crescita era pari al 2,7%. In Italia il terzo trimestre 2018 segna una crescita tendenziale del pil dello 0,7%, mentre alla fine del 2017 il tasso di crescita tendenziale era pari all’1,5%. Su base congiunturale il terzo trimestre ha fatto registrare un segno negativo sia in Italia (-0,1% rispetto al secondo trimestre 2018) che in Germania (-0,2% rispetto al secondo trimestre 2018), dove pesa la contrazione del mercato automotive a seguito dell’introduzione delle nuove regole sui motori diesel. Inopportuno in entrambi i casi parlare di una nuova recessione, tecnicamente servono tre trimestri consecutivi con segno negativo.

DOMANDA, ESTERA DEBOLE MA INTERNA FORTE

Draghi ha sottolineato però come le condizioni macroeconomiche, sebbene inferiori alle aspettative, a fronte di una domanda estera più debole, siano sostenute da una domanda interna forte e che il rallentamento si prevalentemente legato a fattori specifici di alcuni Paesi e/o settori. Questo – unitamente al miglioramento delle condizioni sul mercato del lavoro, testimoniate dalla crescita del tasso di occupazione e dei salari abbastanza diffusa tra i Paesi dell’eurozona – si ritiene adeguato a supportare l’espansione economica dell’area e la futura convergenza del tasso di inflazione verso il 2%. Ciononostante, si è consapevoli dei rischi che potrebbero derivare dal contesto internazionale, prevalentemente a causa delle tensioni commerciali, delle incertezze sullo scenario geopolitico e della volatilità dei mercati finanziari. Per tutti questi motivi la politica monetaria resta accomodante e fondamentale per supportare le dinamiche di crescita.

Certo è, ha ribadito il presidente della Bce, che al fine di trarre i massimi benefici dalle misure di politica monetaria, altri strumenti di policy devono contribuire in modo più decisivo all’innalzamento del potenziale di crescita di lungo termine e alla riduzione delle vulnerabilità. L’attuazione delle riforme strutturali nei Paesi dell’area dell’euro deve dunque essere sostanzialmente rafforzata per migliorare la resilienza, ridurre la disoccupazione strutturale e aumentare la produttività e il potenziale di crescita. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

 

Articolo pubblicato su i-Com.it

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