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Presidenziali Usa 2020, tutto può succedere

Usa

Il commento Alberto Flores D’Arcais sulla campagna elettorale negli Usa in vista delle presidenziali di novembre

Martedì 10 marzo verrà probabilmente ricordato come il giorno in cui Sanders ha perso ogni speranza di ottenere la nomination democratica alla Casa Bianca. Dopo essere stato sconfitto nel Super Tuesday del 3 marzo – la vittoria in California non ha compensato “zio Bernie” delle pesanti sconfitte in Massachusetts, Texas e negli Stati del sud – il banco di prova decisivo era il Michigan. Perché nel blue collar State per eccellenza, quello dove la classe operaia americana ha scritto, tra Detroit e dintorni, pagine che fanno parte della storia Usa, nel 2016 il candidato “socialista” aveva vinto a sorpresa le primarie contro Hillary Clinton; e nel novembre successivo la ex First Lady aveva perso contro Donald Trump, spianandogli la strada verso la Casa Bianca.

L’IMPORTANZA DEL MICHIGAN

Di queste primarie 2020 il Michigan era un po’ la cartina di tornasole. Chi avrebbero scelto gli operai delle industrie automobilistiche, gli ex lavoratori delle industrie abbandonate, i giovani disoccupati, le famiglie disgregate? Se quattro anni fa avevano scelto il populismo di sinistra e poi quello di destra, questo 10 marzo l’indicazione è stata di segno opposto. Vincendo in Michigan e vincendo (con margine ancora maggiore) in Stati assai diversi come Missouri, Mississippi e Idaho, Joe Biden ha unificato attorno al suo nome le anime che formano l’ossatura del partito democratico: elettori bianchi (uomini e donne), elettori afro-americani, elettori delle città, dei suburbs e delle aree rurali. Vale a dire la coalizione necessaria per poter competere seriamente il prossimo 3 novembre nella sfida decisiva contro The Donald.

TUTTO CAMBIA, TUTTO PUÒ CAMBIARE

Tra oggi e novembre può accadere ancora di tutto negli Usa. Solo un mese fa l’economia andava a gonfie vele, la Borsa era ai massimi storici, Trump impazzava su Twitter rivendicando ogni giorno nuovi successi (veri ed immaginari). Joe Biden era considerato un cadavere politico dopo aver perso in modo devastante nei caucus dell’Iowa e nelle primarie del New Hampshire, dove solitamente chi vince ottiene poi la nomination. In un mese è cambiato tutto. Mercati finanziari travolti dalla crisi coronavirus (che la Casa Bianca ha pericolosamente e volutamente sottovalutato per settimane) e dalla guerra del petrolio tra Arabia Saudita e Russia di Putin. Sanders dato troppo presto per vincitore e improvvisa resurrezione di Biden.

Dopo un anno di grande confusione politica e di altrettanto grande stabilità economica, i due principali indici nella corsa alla Casa Bianca si sono di fatto invertiti. Da martedì (10 marzo) c’è la schiacciante probabilità che la Race 2020 sarà una sfida tra il presidente Donald J. Trump e l’ex vicepresidente Joseph R. Biden Jr. E c’è l’altrettanta certezza – confermata da tutti gli esperti economico-finanziari – che nei prossimi mesi i mercati potrebbero essere una sorta di montagne russe. Con, in più, la variabile (ancora tutta da decifrare) dell’impatto coronavirus sugli Stati Uniti e sul mondo.

In un momento di grande trasformazione della storia, quando l’ondata di cambiamenti nel clima, nella tecnologia, nella demografia e nell’equilibrio di potere globale, sta creando nuove, urgenti sfide politiche negli Usa e in tutto il pianeta Terra, la corsa alla Casa Bianca sembra però essere priva di nuove idee e di nuove visioni. Forse non aiuta il fatto che a sfidarsi siano due uomini, bianchi, di una certa età (73 anni Trump, 77 anni Biden), che si sono formati in un mondo completamente diverso, le cui visioni risalgono a decenni fa e i cui istinti e preoccupazioni sono essenzialmente rivolti al passato.

NORMALITÀ O “NON NORMALITÀ”

L’idea-chiave della campagna di Joe Biden, su cui insiste molto nei comizi, nei dibattiti televisivi, negli slogan, è quella del “ritorno alla normalità“. Il suo programma ripete, un po’ stancamente, le tradizionali posizioni del partito democratico, con una spolverata di sinistra dovuta ai mutamenti del partito negli ultimi quattro anni e alla presenza di Sanders, di Elizabeth Warren e delle giovani deputate al Congresso (Alexandria Ocasio-Cortez un nome per tutte). Nulla a che vedere con il messaggio di “speranza e cambiamento” lanciato da Barack Obama nel 2008 che – conta poco il fatto che sia poi stato più o meno realizzato – aveva mobilitato e rivitalizzato l’elettorato democratico, soprattutto i giovani e le minoranze.

Quanto a Donald Trump, l’idea-guida della sua campagna elettorale è quella di continuare a tutti gli effetti la sua politica di “non normalità“: scelte discusse, a volte imprevedibili, partigianeria di partito (e nelle istituzioni) portata a livelli limite per la democrazia. E soprattutto, cosa che nelle ultime, difficili, settimane è diventata ancora più evidente un vero e proprio culto della personalità (sua), condito da vendette, capricci, lamentele contro avversari, alleati e anche staff più stretto. Il 2020 avrà un candidato che parla di Trump, un altro che si oppone a Trump, ma nessuno dei due sembra in grado – al momento – di affrontare le grandi sfide del futuro degli Stati Uniti e del mondo.

 

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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