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Chi è Daniel Driscoll, il segretario all’Esercito che ridisegna il Pentagono e tratta con Kiev


Daniel Driscoll è molto più del tradizionale segretario all’Esercito statunitense: somiglia piuttosto al braccio operativo dell’asse Trump-Vance, pronto a tradurre sul terreno degli apparati militari l’agenda “America First 2.0”. Dallo sveltimento degli iter burocratici dell’Esercito — per ridurre i tempi di approvvigionamento e tagliare i colli di bottiglia — al ruolo di emissario nelle trattative con Kiev: chi è Driscoll e quale spazio politico sta occupando? 

Il 20 novembre Daniel Driscoll è volato a Kiev alla guida della delegazione americana che ha presentato a Volodymyr Zelensky un piano di pace che, come riportato dal Financial Times,  è più vicino alle richieste di Mosca che a quelle ucraine, la cui scadenza fissata dalla Casa Bianca al 27 novembre lascia intendere tutta la pressione esercitata su Kiev. Molti negli Stati Uniti già lo vedono come il funzionario incaricato non solo di chiudere la guerra, ma anche di trasformare i fondi russi congelati in una maxi-operazione di ricostruzione guidata da Washington, una sorta di “Piano Marshall rovesciato”, in cui gli Stati Uniti non finanziano la ripresa, ma gestirebbero (con potenziali ritorni) gli asset sequestrati a Mosca. È in questo incrocio tra diplomazia, gestione del dossier ucraino e controllo delle risorse che Driscoll si sta ritagliando il suo spazio: un ruolo ibrido, che trascende quello formale di Segretario dell’Esercito e lo colloca al centro della nuova postura internazionale dell’amministrazione Trump.

CHI È DANIEL DRISCOLL

Confermato dal Senato il 25 febbraio 2025 come Segretario dell’Esercito statunitense, al momento della sua nomina i democratici non hanno sollevato critiche sul piano personale. Si sono limitati a raccomandargli di rispettare la legge, sottinteso: “prima delle richieste del presidente”. Un monito che allora sembrava formale, ma che oggi, alla luce della sua crescente centralità, assume tutt’altro peso. Spesso descritto come l’“alleato di ferro” di J.D. Vance: i due non sono soltanto complici politici ma amici dai tempi della Yale Law School. Driscoll è originario della Carolina del Nord, è un veterano dell’US Army, passato per la durissima Ranger School e dispiegato in Iraq durante l’Operazione Iraqi Freedom. Accanto al curriculum militare, porta con sé competenze finanziarie e un profilo politico costruito come consigliere di Vance. È forse proprio questa combinazione — soldato, analista, manager — ad averlo proiettato oltre il perimetro tradizionale del suo incarico, trasformandolo in uno dei funzionari più influenti della nuova amministrazione.

EMISSARIO (NON) PORTA PENA: LA MISSIONE DI DRISCOLL A KIEV

Non a caso, quindi, Trump ha scelto proprio lui per il primo faccia a faccia con Zelensky sul nuovo quadro di pace  “che comporterebbe per Kiev concessioni territoriali, limiti alle sue forze armate, il divieto costituzionale di aderire alla NATO e un vasto piano economico per la ricostruzione.” Driscoll appare sempre più come una cerniera tra la Casa Bianca e il fronte della guerra: un soldato diventato negoziatore, o forse un negoziatore che parla anche la lingua dei soldati. La sua centralità nel dossier ucraino, però, non è priva di critiche. Come ricostruisce il Manifesto, l’incontro tra la delegazione statunitense e Zelensky, durato circa un’ora, si è svolto in un clima di forte pressione, con Kiev chiamata ad accettare “concessioni dolorose” per non rischiare un ridimensionamento degli aiuti militari americani. Un contesto che porta diversi osservatori a parlare di una pace “più dettata che negoziata”. Ed è proprio questo quadro di pressioni e scadenze serrate a rendere il ruolo di Driscoll tanto centrale quanto controverso.

DALL’OFFICINA MILITARE ALLA LOGICA COMMERCIALE: IL PENTAGONO SECONDO DRISCOLL

La centralità di Driscoll, però, non si gioca solo a Kiev. Mentre tratta sul fronte ucraino, in casa sta portando avanti una riforma che promette di ridisegnare gli equilibri dell’Esercito americano. La sua idea è portare la logica della Silicon Valley dentro il Pentagono: abbandonare la costruzione “su misura” dei sistemi d’arma e adottare tecnologie commerciali già disponibili, adattandole rapidamente al campo di battaglia. Per accelerare questo cambio di paradigma, Driscoll ha introdotto nuove strutture decisionali, i Portfolio Acquisition Executives: veri e propri “mini-ministeri” con poteri diretti su requisiti, sviluppo, test e acquisizioni. L’obiettivo è tagliare la burocrazia e ridurre i tempi, avvicinando il ritmo del Pentagono a quello dell’innovazione commerciale. Il progetto, però, non convince tutti. Alcuni analisti temono che la “rottamazione” delle strutture tradizionali sia troppo rapida e che l’affidamento massiccio a tecnologie commerciali possa esporre i sistemi d’arma a vulnerabilità che le piattaforme proprietarie, pur lente, limitavano.

L’OMBRA DEI PRECEDENTI

E i timori non sono solo teorici. Non sarebbe la prima volta che il Pentagono si trova a fare i conti con acquisti controversi di tecnologie straniere. Già nel 2019, come riportato dal Financial Times, telecamere prodotte in Cina risultavano ancora installate in basi militari statunitensi, nonostante il divieto federale. Inoltre, un audit dell’Office of Inspector General del Pentagono ha rilevato che, nello stesso anno, l’Esercito e l’Air Force acquistarono almeno 32,8 milioni di dollari in dispositivi IT commerciali con vulnerabilità di cybersecurity già note. Questi precedenti mettono in prospettiva la riforma promossa da Driscoll: regolamentare la provenienza degli apparati militari sarà un passaggio tanto urgente quanto politicamente e tecnicamente delicato. E sarà forse in questo equilibrio — tra innovazione necessaria e rischi già visti — che si misurerà la sua vera forza politica.

 

Crediti foto: immagini presa dal profilo Instagram di Daniel Driscoll

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