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Ecco come orientarsi nel risiko della Libia

Marocco

L’approfondimento di Lorenzo Marinone per il Cesi sulle nuove regole della crisi in Libia

Il collasso dell’offensiva del Generale Khalifa Haftar su Tripoli, con le sue ragioni e i suoi protagonisti, descrive in modo plastico quali sono le nuove regole che determinano l’evoluzione della crisi libica.

Il 4 giugno, le forze del Governo di Unità Nazionale (GUN) hanno ripreso il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli strappandolo ai gruppi armati che combattono sotto la bandiera dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) di Haftar. In poco più di 72 ore la controffensiva è dilagata anche nel resto della Tripolitania, fagocitando Bani Walid e Tarhouna per arrestarsi soltanto in vista di Sirte, oltre 350 km più a est.

Essenzialmente, questo capovolgimento di fronte è stato reso possibile da due fattori abilitanti: il supporto militare decisivo della Turchia al GUN e il ritiro improvviso di buona parte delle forze russe della PMC (Private Military Company) Wagner dalle prime linee dell’ENL. In altri termini, le decisioni prese ad Ankara e Mosca hanno determinato la traiettoria della crisi libica più di quanto non abbiano fatto le scelte di altri attori come gli Emirati Arabi Uniti, la Francia o l’Italia.

Benché non siano certo i soli attori esterni impegnati nel conflitto libico, né i soli a dare supporto militare agli schieramenti rivali, Russia e Turchia hanno saputo ritagliarsi un ruolo decisivo.

Ankara è intervenuta a fianco del GUN fin da maggio 2019, evitando che il fronte tripolino soccombesse e ri-bilanciando in modo molto efficace gli sforzi profusi dagli Emirati a favore di Haftar. Nei mesi successivi, i militari turchi hanno prima neutralizzato la superiorità aerea emiratina e poi sostenuto il grosso dello sforzo bellico anche in termini di uomini al fronte (inviando in Libia centinaia, se non migliaia, di mercenari siriani).

Questi aiuti al GUN sono stati sapientemente dosati per ricavare il massimo vantaggio. Lo scorso novembre, infatti, la Turchia ha ritardato l’invio dei mercenari finché il Premier di Tripoli Fayez al-Serraj, temendo che la linea di difesa della capitale potesse cadere a breve, è stato costretto a ha sottoscrivere un accordo di delimitazione dei confini marittimi e un accordo di cooperazione militare a favore di Ankara. È poi stato il sensibile rafforzamento del dispositivo militare turco in Libia, avvenuto attorno ad aprile, a consentire al GUN di riprendere l’iniziativa fino a recuperare tutto il territorio perso nell’anno precedente.

Parallelamente, la Russia ha modulato con molta abilità il supporto garantito all’ENL, allo scopo di esaltare la dipendenza dell’offensiva dall’apporto di Mosca più che da quello degli alleati arabi di Haftar. Il Cremlino non è stato tra gli sponsor più entusiasti dell’offensiva di Haftar su Tripoli ma ha gradualmente aumentato il suo coinvolgimento. Con l’invio massiccio di effettivi della Wagner al fronte, tra ottobre e novembre 2019 (l’ONU ne stima almeno 1.200), ha migliorato nettamente le capacità di targeting e l’efficacia dell’artiglieria dell’ENL. Ciò ha permesso alle forze di Haftar di riprendere ad avanzare, seppur lentamente, lungo un fronte che era rimasto altrimenti statico nonostante il contributo militare degli Emirati, dell’Egitto e della Giordania.

Alla stessa logica risponde una mossa che altrimenti sembra difficile da spiegare, ovvero il ritiro inaspettato di tutti gli assetti della Wagner dal fronte a partire dal 23 maggio scorso. Elemento rivelatore in questo senso è la visibilità che è stata volutamente data a tutta l’operazione. Se nei mesi precedenti la Wagner era stata particolarmente efficace nel limitare che trapelassero prove della presenza russa in Tripolitania, nell’ultima settimana di maggio il ritiro è avvenuto in pieno giorno, con convogli di decine di pick-up lungo le strade di Bani Walid, Antonov e altri aerei cargo che hanno realizzato un vero e proprio ponte aereo per ridispiegare gli assetti in Cirenaica, e numerosi video che documentavano l’esodo. Un messaggio estremamente chiaro sull’indispensabilità del supporto moscovita, se si considera che senza questo Haftar non è riuscito a tenere il fronte neppure per 15 giorni.

In sintesi, Turchia e Russia hanno guadagnato più voce in capitolo nella partita libica, scalzando i loro competitori diretti e diventando un punto di riferimento obbligato per le fazioni libiche che finora hanno ricevuto il loro supporto. Si tratta di un cambiamento importante per le dinamiche della crisi libica, dove ciascuno schieramento ha sempre potuto godere dell’appoggio di una pletora di attori esterni, più o meno coinvolti. Se ciò da un lato ha contribuito ad aumentare il caos dello scacchiere libico, dall’altro ha sempre evitato che le fazioni dell’Est e dell’Ovest diventassero eccessivamente dipendenti da un singolo interlocutore. Lo scenario attuale non consegna a Turchia e Russia delle posizioni assolutamente egemoni nei rispettivi campi, ma dà loro certamente più libertà di manovra. Dunque, Russia e Turchia non sono sovrani assoluti, ma piuttosto azionisti di maggioranza.

Da queste posizioni di forza, oltre a gestire l’andamento del conflitto, adesso i due Paesi possono provare a capitalizzare anche sul piano politico-diplomatico il loro impegno, influenzando profondamente tempistiche e modalità della prossima fase negoziale. D’altronde si tratta di un tentativo che è già stato portato avanti nel passato recente. Lo scorso gennaio, appena una settimana prima della conferenza di Berlino sulla Libia, promossa dalle Nazioni Unite e sostenuta soprattutto da molti Paesi europei, Turchia e Russia avevano provato a intestarsi la gestione della crisi organizzando in fretta e furia un summit a Mosca. Operazione che era riuscita solo a metà (Haftar aveva rifiutato di mettere la sua firma sul cessate il fuoco proposto in quella sede), ma che aveva fatto intendere chiaramente quali fossero le mire di due attori in teoria in forte contrasto sul dossier libico.

Su tali basi, tutti gli altri attori esterni vengono ulteriormente marginalizzati nella crisi libica sia nel caso in cui Turchia e Russia riescano a collaborare e coordinare le prossime mosse, sia se ciò non avvenisse. Nella prima ipotesi, infatti, si preparerebbe una riedizione, opportunamente rafforzata, del summit di Mosca appena citato. Ciò permetterebbe loro di sovrapporsi e influenzare il percorso negoziale principale, cioè quello portato avanti dall’ONU. In buona sostanza, si tratterebbe di una applicazione libica del “modello Astana” già sperimentato con successo in Siria dal 2017, che ha consentito alle due potenze, rivali anche in quel teatro, di gestire in condominio il decorso del conflitto. In caso contrario, pur mancando un coordinamento russo-turco sulla Libia, entrambi gli attori potrebbero semplicemente continuare a usare il loro apporto militare determinante come leva per ampliare il grado di controllo sui propri referenti locali. In questo senso, Ankara e Mosca hanno guadagnato un potere di sabotaggio notevole verso qualsiasi iniziativa politica e diplomatica che non rispecchi i loro desiderata. A ben vedere, dunque, individuare una soluzione politica stabile per la Libia ora è più complesso, perché l’influenza russo-turca fa sì che il dossier libico possa essere legato a piacimento ad altri tavoli negoziali o teatri di conflitto in cui i due Paesi hanno interessi.

Ad ogni modo, va sottolineato che il quadro fin qui descritto non consegna in alcun modo le chiavi della crisi libica a due soli attori, né li mette in condizione di governare con facilità il complesso mosaico libico e gli intrecci di rivalità che caratterizzano i rapporti tra gli attori politici e militari locali. Per quanto abbiano incrementato la loro influenza, Russia e Turchia devono riuscire a gestire l’aumento di esposizione che ne deriva.

In questo senso, non si può escludere che l’avanzata di Ankara in Libia si traduca in un rafforzamento di quel variegato fronte anti-turco in formazione, che riunisce tanto Paesi arabi come gli Emirati e l’Egitto quanto attori europei come Cipro, Grecia e Francia. Un fronte a cui si potrebbero avvicinare anche quei Paesi finora più cauti nel gestire i rapporti con Ankara, come ad esempio l’Italia.

Parallelamente, una maggiore esposizione russa in Libia ha già suscitato un ritorno d’attenzione da parte americana per le vicende del Paese maghrebino. Finora Washington in Libia si è mostrata interessata quasi unicamente al contrasto al terrorismo di matrice jihadista. Ma la prospettiva di una presenza militare russa “aperta” in un teatro così strategico per la vicinanza all’Europa e al fianco sud della NATO nonché per le possibilità che dischiude rispetto al continente africano potrebbe indurre gli Stati Uniti a far sentire di più la propria voce.

Da ultimo, va notato che di fronte ad un ruolo preminente di Russia e Turchia anche l’Europa subirà una maggiore marginalizzazione, sia come attore collettivo sia a livello di singoli Paesi membri. Le risposte messe in campo da Bruxelles e dalle singole Cancellerie europee in questi anni mostrano adesso alcuni limiti che tendono a diventare strutturali. Il limite principale è la scarsa flessibilità e la farraginosità di alcuni processi decisionali dei sistemi politici europei.

L’Ue ha impiegato ben 4 mesi per rendere operativa la missione militare Irini, che doveva essere lo strumento di punta per sostenere gli sforzi diplomatici della conferenza di Berlino. Nello stesso lasso di tempo, Russia e Turchia hanno fatto un uso spregiudicato dei loro strumenti di hard power, non disdegnando la preferenza per quelli asimmetrici quando si palesava la necessità di mantenere un basso profilo. Quando le prime fregate di Irini si avvicinavano per la prima volta alle acque libiche, la Turchia aveva già conquistato una base militare in Libia e posto le basi per il tracollo di Haftar, mentre la Russia aveva addirittura spedito in teatro alcuni assetti aerei, probabilmente Mig-29 e Sukhoi-24. Entrambi avevano favorito l’ingresso nel Paese di migliaia di miliziani di origine siriana, creandosi i presupposti per disporre di proxy locali affidabili.

Dunque, di fronte ad attori che non esitano a fare uso di questi strumenti, l’approccio europeo rischia di risultare strutturalmente svantaggiato. In sintesi, l’Ue rischia di farsi imporre regolarmente da altri dei fatti compiuti e di perdere notevolmente potere di indirizzo e capacità gestionale delle tante crisi che affollano il quadrante mediterraneo.

 

Articolo pubblicato su cesi-italia.org

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