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Hong Kong: cosa comporta la nuova legge sulla sicurezza nazionale approvata da Pechino

Riforma Sistema Elettorale Hong Kong

Per la prima volta il governo di Pechino ha forzato la mano e creato le condizioni legali per poter incrementare il controllo diretto sulla ex-colonia britannica. L’approfondimento di Francesca Manenti per il Cesi sulla nuova legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong

Con la firma del Presidente cinese, Xi Jinping, avvenuta poco ore dopo la delibera del Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il governo cinese ha definitivamente approvato la legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong.

COSA COMPORTA LA NUOVA LEGGE

Pubblicato già in serata sulla Gazzetta Ufficiale locale, il provvedimento marca un cambiamento storico per la Regione Autonoma e, di fatto, impatta profondamente sul modello “Un Paese, due sistemi”, su cui si era fondato il rapporto tra Hong Kong e il governo centrale negli ultimi ventitré anni. Per la prima volta, infatti, il governo di Pechino ha forzato la mano e creato le condizioni legali per poter incrementare il controllo diretto sulla ex-colonia britannica. La nuova legge sancisce la perseguibilità penale delle condotte di sovversione, separatismo, collusione con Paesi o entità straniere e atti di terrorismo, nonché crea un apparato di sicurezza ad hoc che, di fatto, istituzionalizza non solo la presenza di rappresentanti del governo cinese ad Hong Kong, ma attribuisce ad essi competenze e prerogative nella gestione delle questioni più delicate o spinose connesse a possibili minacce alla sicurezza nazionale.

ISTITUITO L’UFFICIO PER LA TUTELA DELLA SICUREZZA NAZIONALE

Con la creazione dell’Ufficio per la Tutela della Sicurezza Nazionale, Pechino è riuscita a tutti gli effetti ad ancorare la propria presenza all’interno della regione Autonoma e ad estendere in modo significativo la propria capacità di controllo sulla gestione della sicurezza interna. Secondo quanto stabilito dal provvedimento, infatti, l’Ufficio ha competenze di indirizzo politico e strategico sulla gestione delle questioni relative alla sicurezza nazionale; di controllo, supervisione e coordinamento con le autorità locali per l’implementazione della legge; di raccolta e analisi di intelligence rilevanti possibili minacce alla sicurezza nazionale e, infine, di gestione di crimini specifici (casi di particolare delicatezza perché coinvolgono Paesi terzi, minacce imminenti, impossibilità per le autorità locali di implementare le disposizioni ).

L’Ufficio rappresenta, di fatto, il ganglio del nuovo sistema di controllo creato dal governo centrale ad Hong Kong. Oltre alle prerogative di legge, infatti, l’organo deve essere interpellato e deve esprimere il proprio parere per la nomina del capo del Dipartimento per la Tutela della Sicurezza Nazionale della Polizia locale e del capo della neonata divisione speciale per il giudizio dei crimini contro la sicurezza nazionale del Dipartimento di Giustizia, che vengono nominati ufficialmente dal Capo dell’Esecutivo, ma di su cui Pechino si è assicurato così un controllo indiretto. Allo stesso modo, l’auspicio, previsto negli articoli finali del testo, di creare dei meccanismi di coordinamento tra l’Ufficio e gli organi locali preposti all’implementazione della legge e, in direzione opposta, tra l’Ufficio e i Dipartimenti del governo centrale competenti per la gestione dei rapporti con Hong Kong (l’Ufficio di Collegamento e l’Ufficio del Commissario del Ministero degli Affari Esteri) dovrebbero consentire a Pechino di diventare il vero e proprio deus ex machina per la gestione della sicurezza nell’ex colonia britannica.

I RAPPORTI TRA IL PARTITO COMUNISTA CINESE E HONG KONG

Il cruccio per la sicurezza nazionale non è affatto un elemento di novità nei rapporti tra il Partito Comunista cinese e Hong Kong. L’approvazione della nuova legge, infatti, è il compimento di una lunga parabola iniziata già nel 2003, quando un primo tentativo di riforma dell’Articolo 23 della Basic Law in senso restrittivo, sponsorizzata da Pechino e supportata dal governo locale, aveva innescato una forte mobilitazione popolare ed era finita in un nulla di fatto. L’importanza di Hong Kong come ponte di collegamento verso il mondo esterno, nonché come porta di accesso per gli investimenti e i capitali stranieri in Cina, aveva però spinto fino ad ora il governo centrale a mantenere un atteggiamento cauto sia nei ripetuti tentativi di incrementare la propria influenza sulla regione Autonoma sia nella gestione delle reazioni da parte della popolazione locale.

Le manifestazioni di piazza organizzate nel 2012 contro la riforma dell’istruzione o la Rivoluzione degli Ombrelli del 2014, che hanno sugellato la popolarità dei movimenti studenteschi di protesta pro-democrazia, sono state studiate attentamente a Pechino, ma sono rimaste nell’alveo della dialettica politica interna ad Hong Kong. La promulgazione della nuova legge sulla sicurezza nazionale, invece, rappresenta un’accelerata delle autorità centrali nel fare un passo avanti ed affermare la propria autorità sulla stabilità della Regione autonoma, sacrificando, di fatto, la credibilità del governo locale sull’altare della tutela dei propri interessi strategici.

MINATA LA CREDIBILITÀ DEL GOVERNO LAM

La scelta di imporre dall’alto un provvedimento così cruciale per gli sviluppi futuri ad Hong Kong, senza alcun coinvolgimento delle autorità locali, infatti, ha inevitabilmente messo da parte il governo dell’attuale capo dell’esecutivo, Carrie Lam, e rischia ora di minarne la già precaria credibilità agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Il cambio di passo compiuto da Pechino sembra essere figlio della trasformazione degli equilibri internazionali innescati dall’affermazione della Repubblica Popolare come nuova potenza globale e del momento di difficoltà che la Cina sta attraversando negli ultimi sei mesi.

Il ruolo sempre più globale ricercato dal governo cinese e i conseguenti mutamenti dei rapporti con i possibili rivali hanno portato la questione di Hong Kong all’interno del dibattito internazionale. Se in occasione delle già citate manifestazioni di piazza del 2012 e del 2014 l’attenzione delle opinioni pubbliche straniere era rimasta sostanzialmente distaccata, i movimenti pro-democrazia e le proteste scoppiate nel giugno 2019 in occasione della proposta di legge sull’estradizione, invece, hanno acceso l’attenzione di tutta la Comunità Internazionale, ed in particolare di Europa e Stati Uniti, sui controversi rapporti tra le piazze di Hong Kong e Pechino.

IL FARO ACCESO SU HONG KONG DALLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

La fama internazionale guadagnata dalle istanze pro-democrazia e il supporto espresso da componenti politiche in diversi Paesi, di fatto, hanno portato la questione al centro del dibatto internazionale. Per il governo cinese il faro acceso su Hong Kong ha iniziato ad essere considerato un pericoloso nervo scoperto, che i propri rivali avrebbero potuto toccare per cercare di mettere in difficoltà Pechino a casa propria. L’incapacità dimostrata dalle autorità hongkonghesi di gestire i movimenti di opposizione e l’innesco di una spirale di instabilità causata dalla degenerazione violenta del confronto hanno iniziato a rappresentare una minaccia sempre più pressante per Pechino, per il quale la stabilità e la capacità di controllo di tutte le regioni del Paese, specialmente delle periferie, rappresenta la priorità per eccellenza dei propri interessi strategici.

Un incremento dell’attenzione del governo centrale rispetto al dossier di Hong Kong era stato già evidente ad inizio 2020 con la scelta del Presidente Xi di nominare al vertice dell’Ufficio per gli Affari Di Hong Kong Xia Baolong, uomo di sua fiducia dai tempi dell’esperienza politica nella provincia di Zhejiang, e di integrare nell’organigramma dello stesso ufficio il direttore dell’ufficio di collegamento ad Hong Kong, per creare una maggiore sinergia tra i due capi del filo diplomatico incaricato di supervisionare una relazione così delicata come quella tra Pechino e la regione Autonoma.

LA SPINTA DATA DALLA PANDEMIA COVID-19

Tuttavia, lo scoppio della pandemia Covid-19 e le difficoltà riscontrare dal governo cinese nel gestire gli effetti collaterali della crisi sembrano essere stati fatto rideterminanti nell’irrigidimento della politica verso Hong Kong. In un momento in cui lo strascico dell’emergenza sanitaria ha portato alla luce un forte malcontento popolare nella stessa Cina e la presenza di fattori interni, quali l’aumento della disoccupazione o l’insoddisfazione per la situazione economica, che avrebbero potuto diventare punti di debolezza per la solidità della Repubblica Popolare, il governo di Pechino è sembrato guardare alla risoluzione della questione di Hong Kong come un’urgenza che non avrebbe più potuto aspettare.

LE FINALITÀ DELLA NUOVA LEGGE

L’adozione di una nuova legge sulla sicurezza nazionale lasciata calare dall’alto ha avuto così un duplice scopo. Da un lato, risolvere alla radice un problema di stabilità interna che sarebbe potuto servire da esempio eventualmente per altri focolai di insoddisfazione. Dall’altro, lanciare un segnale di forza alla Comunità Internazionale, in primis agli Stati Uniti e all ’Unione Europea, per scongiurare che le difficoltà interne causate dalla pandemia potessero essere interpretate come segnali di una debolezza intrinseca, che avrebbe potuto compromettere la proiezione dell’immagine di potenza a tutto tondo costruita in questi anni.

LE CONSEGUENZE PER HONG KONG E PER LA CINA

L’entrata in vigore della nuova legge, dunque, segna un momento di importante spartiacque nella storia stessa della Cina e potrebbe avere conseguenze sia sulla stessa Hong Kong sia sui rapporti internazionali di Pechino. Per Hong Kong, l’entrata in vigore del provvedimento sembra porre fine all’esperienza dei movimenti pro-democratici così come è stata conosciuta fino ad oggi.

Il giro di vite assestato alla libertà di espressione e il maggior controllo richiesto sui mezzi di informazione e dei social network limita, di fatto, gli spazi legittimi di confronto politico e svuotano parzialmente di significato l’intera dialettica politica tra le forze hongkonghesi. La storia della Regione Autonoma è stata sempre costellata di manifestazioni popolari nei confronti del governo di turno. La dialettica tra i palazzi e le piazze ha portato alla formazione di un sentimento identitario forte e peculiare, che ha caratterizzato, seppur in modo diverso, i vari movimenti politici che hanno animato le piazze dell’ex colonia britannica.

Il venir meno degli spazi di espressione politica e identitaria, tuttavia, potrebbero ora tappare gli sfiati di un malcontento che la legge ha contribuito a soffocare, non a placare, e che potrebbe degenerare in istanze oltranziste, dagli imprevedibili risvolti violenti. Sebbene le manifestazioni di protesta ad Hong Kong si siano sempre contraddistinte per le marce pacifiche e le occupazioni di resistenza, non è possibile escludere che ci siano frange all’interno del fronte anti-governativo, soprattutto tra le nuove generazioni cosmopolite, che possano prendere le distanze dalla tradizione locale e deviare verso forme di opposizione maggiormente violenta.

I primi segnali di questa tendenza sono emersi già nel corso dell’ultimo anno, quando alcuni manifestanti hanno iniziato una contrapposizione violenta contro le Forze di Polizia. Questo passaggio sembra essere stato parzialmente anche il risultato di un mutamento delle istanze stesse espresse dalle piazze. Se in passato le manifestazioni avanzavano rivendicazioni di natura prettamente politica (l’opposizione alla riforma educativa o la richiesta del suffragio universale) il progressivo uso della violenza da parte delle autorità locali ha portato ad una maggior ideologizzazione delle piazze.

Il venir meno di specifici motivi politici ha inevitabilmente fatto sì che una parte dei movimenti si ancorasse alla volontà di affermare dei principi considerati fondamentali, quali l’identità nazionale della popolazione di Hong Kong o il rifiuto della violenza da parte della Polizia nei confronti degli stessi cittadini. Se, da un lato, questo ha fatto sì che ci potesse essere un’adesione massiva alle proteste, svincolate dall’opinione politica su uno specifico provvedimento, dall’altro ha aperto alla possibilità di un contrasto sistemico rispetto alle autorità locali.

Con lo scioglimento di movimenti simbolo, come Demosisto, e la messa a tacere delle voci più prominenti del fronte pro-democratico, un forte sentimento di disaffezione potrebbe instillarsi tra l’opinione pubblica nei confronti del processo politico all’interno della Regione Autonoma e spingere alcune frange a provare a forzare, a propria volta, la mano per non aspettare passive l’arrivo del 2047, scadenza naturale del modello “Un Paese due Sistemi”.

Parallelamente, la scelta di Pechino lascia trasparire una chiara volontà da parte della leadership cinese di marcare i contorni non negoziabili di quello che può essere lo spazio di discussione e di trattativa con la Comunità Internazionale. Considerata da sempre una questione politica interna, il governo cinese sembra aver voluto cogliere l’occasione offerta dalla necessità di trovare una soluzione rapida all’instabilità ad Hong Kong per ribadire l’irricevibilità di pressioni esterne sulle modalità con cui Pechino decide di gestire gli affari nazionali.

I MONITI DELL’UE E LA SANZIONI USA

I moniti ricevuti dall’Unione Europea e le sanzioni avanzate dal Congresso statunitense non sembrano essere stati sufficienti a convincere Pechino a tornare su propri passi. Al contrario, la decisione di portare fino in fondo l’approvazione della legge potrebbe essere stato il tentativo delle autorità cinesi di sondare il terreno sulle effettive conseguenze che una simile mossa avrebbe potuto causare ai rapporti con l’Europa e con gli Stati Uniti. Consapevole della sensibilità del ruolo di Hong Kong per le aziende e gli investimenti provenienti da oltre oceano, il governo cinese potrebbe aver voluto testare il punto di equilibrio tra gli interessi economici e i capisaldi politici agli occhi delle classi dirigenti nel Vecchio Continente e, soprattutto a Washington. In un momento in cui la pandemia ha creato forti difficoltà anche per l’Europa e per gli Stati Uniti, la Cina potrebbe aver usato la questione di Hong Kong per capire quali siano i margini di manovra per la definizione dei rapporti e le priorità dei propri interlocutori internazionali.

 

Articolo pubblicato su cesi-italia.org

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