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Il piano Marshall di Angela Merkel? Per ora solo parole

Merkel

La Germania, la prima economia europea, ha messo a disposizione 270 milioni di euro per il piano Marshall per l’Africa, ma per ora i risultati tardano. L’articolo di Pierluigi Mennitti per Start Magazine

La riscoperta dell’Africa da parte tedesca ha coinciso con il grande afflusso di immigrati nell’autunno 2015, quando la decisione di Angela Merkel di aprire le porte ai fuggiaschi della guerra siriana dirottò lungo la rotta balcanica anche buona parte del traffico umano che prima si avventurava per i marosi del Mediterraneo.

Dopo qualche mese, quando i centri di accoglienza e smistamento ebbero superato l’impasse iniziale, i funzionari tedeschi scoprirono che assieme ai siriani erano entrati in Germania uomini e donne provenienti dai quattro angoli del globo dolente: Afghanistan, Pakistan, Iraq, ma anche da ogni regione dell’Africa. Dal nord disilluso dagli sviluppi delle primavere arabe (Tunisia, Egitto), dalle ingerenze belliche euro-francesi (Libia) o dalle croniche debolezze economiche (Marocco) e dall’Africa profonda, lacerata da guerre, fame, drammatici cambiamenti climatici e – non ultimo – regimi politici autoritari e corrotti: Niger, Ciad, Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Gambia.

LA DISTANZA (INIZIALE) DI BERLINO

Berlino ha provato a tenersi politicamente sempre un po’ alla larga da questo Continente, immaginando che in ambito europeo fossero Francia e Italia (e in parte più ridotta Spagna) a gestire una sorta di politica euro-africana. Nella migliore tradizione tedesca sono stati privilegiati progetti di natura economica, soprattutto in campo energetico, legati alla creazione di parchi solari nel deserto (il più ambizioso è Desertec) o iniziative per accaparrarsi preziose materie prime, come i minerali di terre rare (Burundi). Ma l’idea di immaginare un intervento più articolato e complessivo a Berlino è maturato solo quando l’Africa è entrata in casa sotto forma di migranti.

L’IMMIGRAZIONE E LA NUOVA RELAZIONE GERMANIA-AFRICA

“L’immigrazione ci costringe a una nuova relazione con il nostro Continente vicino”, ha certificato in un solenne discorso al Bundestag il suo presidente Wolfgang Schäuble, che in qualità di ministro delle Finanze fu uno degli architetti del cosiddetto Africa Compact. Assieme al Piano Marshall per l’Africa, elaborato in due anni dal ministro per lo Sviluppo Gerd Müller e dell’iniziativa “Pro Africa” del ministero dell’Economia, uno dei tre pilastri della nuova politica africana tedesca. Se i nomi non tradiscono particolare fantasia, anche la filosofia che sottende ai tre progetti è di fatto la stessa. Si parte dalla constatazione che gli aiuti allo sviluppo tradizionali non bastino più, e si punta sull’intervento delle imprese private. I loro investimenti diretti in Africa porteranno in loco know-how e tecnologie, favorendo in questo modo una crescita duratura anche in termini di competenze e infrastrutture.

Allo Stato è riservato un ruolo di garanzia che si basa su tre pilastri: contratti di tutela statale per gli investimenti, assicurazione sui rischi cui l’impresa va incontro e incentivi fiscali per tutte le aziende che decidono di investire nei Paesi che diventeranno partner del progetto.

GLI INVESTIMENTI DI BERLINO PER IL PIANO MARSHALL

Le ambizioni di annunci e dichiarazioni si scontrano però con la modestia dei soldi impegnati. Per capire il volume degli investimenti immaginati da Berlino è necessario mettere i programmi in rapporto con quello che fanno i concorrenti globali. La coincidenza temporale con cui la scorsa estate Cina e Germania hanno annunciato le loro iniziative per l’Africa aiuta a sviluppare un confronto. E i numeri dicono tutto. Pechino ha stanziato per l’Africa 120 miliardi di dollari (60 già nel 2015, altri 60 nel vertice Cina-Africa del 2018).

La Germania, la prima economia europea, ha messo a disposizione 270 milioni di euro per il piano Marshall sviluppato in due lunghi anni da Müller e che ha fornito al governo l’occasione di rilanciare la propria azione diplomatica. È il piccolo tesoretto con cui a fine agosto Angela Merkel è andata a far visita alle autorità politiche di tre Stati africani, Senegal, Gambia e Nigeria, per confermare l’impegno della Germania “a combattere le cause delle migrazioni”. E che è stato alla base della conferenza ospitata a fine ottobre a Berlino, per la quale la cancelliera aveva invitato dieci Capi di Stato e di governo africani. Un incontro ribattezzato dalla stampa tedesca “il vertice degli autocrati”. Il mondo industriale, che avrebbe dovuto assumersi l’onere principale delle iniziative, ha reagito in maniera tiepida.

Associazione industriale e Camera di commercio, ad esempio, avevano sostenuto fin dal 2016 il progetto di Müller ma avevano sempre denunciato la sovrapposizione di competenze tra i diversi ministeri economici augurandosi (invano) un maggior coordinamento. Il presidente dell’Associazione africana dell’industria tedesca, Christoph Kannengiesser, si è lamentato che ci siano voluti ben due anni per definire il piano nei dettagli e ha poi offerto un suggerimento ai politici: si dovrebbero enfatizzare di più le opportunità e le potenzialità del Continente, invece che fossilizzarsi solo su come poter bloccare in origine i migranti. Che è esattamente quel che fanno i politici cinesi.

SOLO PAROLE?

Il viaggio africano della cancelliera aveva invece riaffermato come il tema migrazione resti al centro delle preoccupazioni tedesche (ed europee) e costituisca l’orizzonte entro il quale vengono elaborati i nuovi progetti di investimento. “Una Unione europea prospera può esistere solo se verremo a capo del problema dell’immigrazione stabilendo partnership con gli Stati africani”, aveva detto Merkel ad Accra, dove aveva poi visitato un paio di start-up locali e assicurato ai leader ghanesi non meglio specificati aiuti per le riforme: non un granché.

L’opinione di molti esperti è che i progetti tedeschi pecchino di concretezza, di robustezza finanziaria e siano utili più alla retorica politica che agli obiettivi dichiarati. A mesi di distanza già si misura la fine dell’euforia rispetto alle speranze di una svolta. In un lungo reportage la Deutsche Welle ha riportato l’esperienza dell’esperto di politiche di sviluppo del partito liberale Fdp (all’opposizione), Olaf in der Beek, che ha chiesto al ministero di Müller quante imprese si siano ingaggiate in uno dei programmi di riforme siglati con Ghana, Costa d’Avorio e Tunisia, 365 milioni di euro di finanziamento per rafforzare settore bancario e rifornimento energetico. La risposta del ministero: nessuna.

 

Articolo pubblicato su Start Magazine n.5/2019

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