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Israele, le conseguenze della sentenza della Corte di Giustizia Ue sui Territori

Israele

L’analisi di Sofia Ingrande per Affarinternazionali sull’impatto della sentenza della Corte di Giustizia che colloca l’Ue su una linea intransigente nei confronti dei Territori occupati da Israele in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967

Il 12 novembre, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha emesso la sentenza che stabilisce l’obbligo di porre l’indicazione di origine sugli alimenti provenienti dai territori delimitati dalla Linea Verde, ossia il confine tra Israele e i Territori antecedente il 1967. Tale sentenza calza perfettamente con la linea politica cui si ispira la nuova Commissione europea, la cui presidente Ursula von der Leyen, al recente Peace Forum di Parigi, ha reso esplicito che l’integrazione economica non può elidere il contesto politico.

La sentenza della Corte colloca l’Ue su una linea intransigente nei confronti dei Territori occupati da Israele in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, considerati una violazione indiscutibile e dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra per la protezione dei civili in tempo di guerra del 1949. In sostanza, la sentenza della Corte di Lussemburgo non è solo un ulteriore tentativo di ribadire le delimitazioni territoriali pre-1967, ma anche un messaggio per disincentivare la costruzione di attività industriali negli insediamenti israeliani.

AREA DI LIBERO SCAMBIO E IL DIALOGO POLITICO

Era il 1975 quando la Comunità europea e Israele firmarono un accordo bilaterale che gettò le basi dell’odierna area di libero scambio. Già nel 1989 iniziarono a comparire i primi frutti di tale accordo: Israele abolì del tutto i dazi sui beni importati dalla Comunità europea, la quale, a sua volta, garantì la libera circolazione dei prodotti industriali israeliani.

Attualmente le relazioni commerciali tra Ue e Israele sono regolate dall’Accordo di Associazione, il quale, nel 2000, subentrò all’accordo del 1975. Libera circolazione di servizi e capitali, applicazione delle norme sulla concorrenza, rafforzamento della cooperazione economica e sociale sono i capisaldi dell’Accordo. Tuttavia, sarebbe inglorioso e fuorviante non tenere in considerazione l’altro scopo dell’Accordo. Infatti, il suo fine non è soltanto quello di rimpolpare gli scambi economici, ma anche – e soprattutto – quello di fruire delle relazioni economiche per promuovere il dialogo politico tra le due parti contraenti, le quali condividono gli stessi valori democratici e l’ossequio per lo stato di diritto. Tale attitudine positiva è essenziale per il corretto funzionamento dell’accordo.

L’ORIGINE DELLA QUESTIONE TERRITORIALE

Secondo le regole di origine inscritte nel quarto protocollo dell’Accordo di Associazione del 2000, solamente i beni effettivamente prodotti nel territorio di una delle due parti godono del beneplacito per circolare liberamente. In questo contesto, l’elemento essenziale è che Cisgiordania e Gaza furono considerati de facto territori israeliani fino al 1996.

Questa data, infatti, segna la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), riconosciuta dalla Comunità europea come membro a pieno titolo dell’alleanza Euro-Mediterranea, nonostante uno stato palestinese non esistesse (e per molti versi non esista). Ciò che ne seguì fu la conclusione di un Accordo di Associazione tra Unione europea e Anp, che entrò in vigore nel 1997. Per cui, dal 1997 Cisgiordania e Gaza sono considerati territori palestinesi, non più israeliani, anche se il ruolo dell’allora Anp era allora circoscritto. Di conseguenza, l’accordo tra Anp e Unione europea fa sì che i prodotti palestinesi possano circolare liberalmente nell’Ue, al pari di quelli israeliani.

Anche in questo caso, la cornice legale dei rapporti economici tra le parti aveva una sfumatura politica più marcata: l’ambizione di essere un accordo di buone intenzioni verso la sostenibilità dell’autodeterminazione palestinese.

IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA SICUREZZA E DIRITTI

Tenendo in considerazione che le regole di origine sono strettamente legate allo status incerto dei Territori occupati, già dal 1997 fu chiaro che l’indicazione territoriale si sarebbe rivelata un nodo gordiano che non si sarebbe potuto rescindere in maniera alessandrina. Nel corso degli anni, la risposta dell’Ue è stata precisa e placida, conscia della necessità di usare due pesi e due misure per far fronte ai bisogni di sicurezza di Israele, da un lato, e ai diritti del popolo palestinese, dall’altro. Infatti, ignorare uno dei due lati significherebbe seppellire le speranze di risoluzione del conflitto.

Speranze che sembrano vacillare, in seguito all’annuncio di Mike Pompeo del 19 novembre. Il segretario di Stato Usa ha dichiarato che gli Stati Uniti riconoscono legali i Territori occupati da Israele nella Guerra dei Sei Giorni. Tale asserzione spazza via 40 anni di politiche europee e statunitensi intente a muoversi nella stessa direzione verso la risoluzione del conflitto arabo-israeliano.

Come menzionato nell’accordo di associazione tra Ue e Israele, il dialogo politico e i valori della democrazia sono i fili conduttori della cooperazione tra le parti. Pertanto, l’Ue non può esimersi dal promuovere politiche economiche basate sulla concorrenza leale, lo stato di diritto e il rispetto per i diritti umani.

 

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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