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Israele, ritorno alle urne dopo soli cinque mesi

Israele Cisgiordania

L’approfondimento di Giorgio Gomel, economista, ex direttore studi e relazioni internazionali di Banca d’Italia per Affarinternazionali sulle prossime elezioni in Israele tra previsioni incerte e le novità nel clima di incertezza

Gli elettori israeliani sono chiamati al voto il 17 settembre, appena cinque mesi dopo le elezioni politiche del 9 aprile, dalle quali non scaturì una coalizione di governo, malgrado il successo del Likud del premier Benjamin Netanyahu e dei partiti religiosi e della destra nazionalista con esso alleati.

NETANYAHU PRENDE RISCHI PER AGITARE LO SPETTRO DELLA SICUREZZA

Sull’ultimo scorcio della campagna elettorale ha pesantemente gravato il peggioramento del confronto fra Israele e Iran, non più solo tattico-diplomatico, ma con un ricorso crescente, per quanto indiretto, alla forza. Israele ha colpito in ripetute occasioni le milizie sciite in Siria e sul confine con il Libano protette e rifornite dall’Iran nonché sistemi di armi iraniane sul suolo siriano o in transito verso le basi di Hezbollah in Libano.

Così Netanyahu, pur essendo primo ministro e ministro della Difesa “per gli affari correnti”, quindi con un’autorità  limitata dalla legge in materia  di azioni militari, ha agitato lo spettro della sicurezza nel dibattito pre – elezioni e ha forse assunto anche rischi eccessivi su una pluralità di fronti, mirando a deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle pesanti imputazioni di corruzione e dalla pretesa di conseguire  l’immunità malgrado l’inizio imminente del processo a suo carico e dal tentativo in atto da tempo di delegittimare istituzioni indipendenti, quali la Corte suprema, l’accademia, la stampa e l’universo delle  Ong attive nella difesa dei diritti umani.

ALTRI TEMI DELLA CAMPAGNA ELETTORALE

Fra i partiti antagonisti, i laburisti, reduci da una pesante sconfitta in aprile,  insistono sulle istanze socio-economiche (il degrado del welfare state, l’accentuarsi delle disparità di reddito fra classi sociali). Per altri, l’argomento dirimente è il legame fra religione e politica e il potere crescente dei religiosi nella vita personale e collettiva degli individui.

Quest’ultimo tema è stato agitato con forza da Avigdor Lieberman, ex ministro della Difesa, alfiere delle istanze degli ebrei russi immigrati massicciamente in Israele nei primi Anni 90 che, pur orientati politicamente a destra, sono insofferenti del potere coercitivo dei religiosi e dei loro partiti in materia civile (diritto di famiglia, matrimonio, divorzio, osservanza delle festività ebraiche nei servizi pubblici, ecc.).

Lo stesso Lieberman aveva forzato lo scioglimento del Parlamento lo scorso maggio premendo per l’approvazione di una norma di legge da tempo oggetto di discussione che contempla  l’obbligo del servizio militare – ancorché limitato – per i giovani ultra-ortodossi, che attualmente ne sono esenti per motivi di coscienza.

I PALESTINESI ASSENTI DAL DIBATTITO PUBBLICO

I palestinesi sono divisi e sempre più deboli, lo stesso mondo arabo è più distante dalle loro istanze d’uno Stato indipendente, sospinto da  una convergenza oggettiva di interessi con Israele e contro l’Iran e dalla volontà di cooperare con Israele nei campi commerciale, tecnologico, militare.

L’Amministrazione Trump appoggia con atti unilaterali e trionfalistici il governo Netanyahu, e non s’intravvede una possibilità di un accordo di pace fondato sui principi di Oslo ispirati alla nozione di “due Stati per due popoli”. In questo contesto, gli elettori israeliani tendono a dibattere e a dividersi più sul tema dei ‘valori’: il rapporto fra religione e Stato, l’identità del Paese come Stato ebraico e democratico, le materie afferenti i diritti civili.

Verso le elezioni, i palestinesi restano invisibili, dietro il muro di separazione: un nemico ingrato e irriducibile, che però può essere contenuto in un conflitto “a bassa intensità”. Il costo della ‘non pace’ e del perdurare dell’occupazione, nonostante lo stillicidio di vittime da una parte e  dall’altra per atti di terrorismo, ritorsioni, repressione, e gli effetti avversi anche di natura economica sulla stessa  società israeliana,  appare ai  più inevitabile, ma sostenibile.

QUEL CHE DICONO I SONDAGGI

I sondaggi che si rincorrono freneticamente in Israele così come altrove prima delle elezioni tendono a mostrare con una certa persistenza una situazione di stallo nel futuro Parlamento di 120 seggi. La destra intorno a 57 seggi ( 30 per il Likud, 15 per i due partiti ultra-ortodossi, 10 per la Destra – un partito che ha riunito più raggruppamenti della destra nazionalista e religiosa sotto la guida di Ayelet Shaked, la giovane ex ministro della giustizia nel governo uscente -).

Il centro-sinistra intorno a 53  (di cui 30 per il partito Blu-bianco, centrista-liberale, guidato dall’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz ; sei per i laburisti ; sette per l’Unione democratica, formatasi di recente dalla fusione del Meretz con l’ex primo ministro Ehud Barak e alcuni transfughi dal partito laburista – unica a sostenere con forza i diritti dei palestinesi a uno Stato e a difendere la democrazia incompiuta di Israele avversando la legge dello “stato-nazione ebraico” approvata nel  2018; 11 per la Lista araba unificata).

Lieberman, che propugna un governo di unità nazionale che includa il Likud senza Netanyahu, il partito di Gantz e lui stesso e che sarà  decisivo quindi  per comporre una coalizione di maggioranza che giunga ad almeno 61 seggi, ne otterrebbe 10.

LA DISPONIBILITÀ DELLA LISTA ARABA UNIFICATA

Un elemento di novità rilevante, nel clima di profonda incertezza che connota l’avvicinarsi delle elezioni, è la disponibilità affermata da Ayman Odeh, segretario della Lista araba unificata, a partecipare a un governo di centro-sinistra a condizione che sia rigettata la legge dello stato-nazione, siano ripresi i negoziati fra Israele e l’Anp interrotti dal 2014 ai fini della nascita di uno Stato palestinese sovrano, sia promosso lo sviluppo economico e civile della comunità arabo-israeliana travagliata da arretratezza, povertà e violenza.

La dichiarazione non appare avere sortito effetti positivi nell’immediato, tranne che nei partiti della sinistra che appoggiano l’ingresso del partito arabo in una eventuale coalizione. Il partito di Gantz è rimasto silente, quasi infastidito da una proposta percepita come provocatoria, mentre la destra ha reagito escludendo ogni ipotesi di  collaborazione e accusando uno dei raggruppamenti della Lista – Balad, di orientamento nazionalista, ma laico, non islamista – di non riconoscere la stessa esistenza legittima dello Stato d’Israele.  Si noti che nella storia politica di Israele soltanto il governo di Itzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 godette dell’appoggio parlamentare di partiti arabi pur esterni al governo nella sua azione diplomatica che condusse alla firma del trattato di Oslo nel 1993.

Il gesto di Odeh potrebbe peraltro produrre un effetto virtuoso sugli elettori arabi, quasi il 20% degli aventi diritto al voto in Israele, che nelle elezioni dell’aprile scorso avevano manifestato con un massiccio astensionismo la frustrazione per le divisioni fra i loro partiti, allora presentatisi separati in due tronconi alla scadenza elettorale, e un crescente sentimento di alienazione dal sistema politico del Paese.

 

Articolo pubblicato su Affarinternazionali.it

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