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La crisi turca e il crollo della Erdoganomics

Erdogan

Dietro alla guerra energetica nel Mediterraneo si nasconde il disastro economico al quale Erdogan ha condotto la Turchia

Il Trattato di Sèvres del 1920, di cui si celebrano in questi giorni i cento anni, rappresenta ancora oggi un vero trauma nell’immaginario collettivo del popolo turco. Un impero al collasso economico, sconfitto nella Grande guerra, fu spartito dalle potenze europee e notevolmente ridotto nelle sue dimensioni territoriali. Al tempo, la reazione a queste imposizioni scatenò una vera e propria guerra per l’indipendenza e grazie a Mustafa Kemal Atatürk, comandante militare e politico, tra il 1920 e il 1923, non senza violenze sulle popolazioni civili, la Turchia liberò dalla presenza straniera l’intera penisola anatolica, arrivando a riconquistare anche un lembo dei suo antichi territori europei, la Tracia. Con il Trattato di Losanna del 1923, le potenze europee accettavano questo riassetto territoriale e riconoscevano la repubblica turca, sorta dalle ceneri dell’Impero ottomano. A poco meno di cento anni dalla sua nascita, la Turchia è oggi attraversata da una profonda crisi, guidata in modo sempre più instabile da Recep Tayyip Erdoğan, le cui scelte di politica estera, militare ed economica appaiono quanto mai incerte e pericolose. A cento anni dal Trattato di Sèvres, oggi come allora la crisi economica spinge l’Impero ottomano al collasso. Ma Erdoğan non è Atatürk e rischia di non superare la crisi. Lo scontro con la Grecia per lo sfruttamento dei fondali del Mediterraneo orientale serve come arma di distrazione di massa.

LA GUERRA ENERGETICA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE

Alle varie azioni intraprese su molteplici scenari – dalla Siria alla Libia all’Azerbaijan – e alle numerose interlocuzioni avviate negli ultimi mesi con molti attori geopolitici, la Turchia negli ultimi giorni ha aggiunto una vera e propria guerra con finalità di controllo sulle fonti energetiche nel Mediterraneo orientale. Non da oggi, infatti, per tutelare i propri interessi energetici e aumentare il raggio di azione delle esplorazioni nel Mediterraneo, la Turchia dichiara che la sua sfera d’influenza sui mari da cui è bagnata non sia limitata solo alle aree limitrofe alle coste e contesta i confini marittimi che le sono assegnati dagli accordi internazionali; per questo motivo la Turchia non ha firmato la Convenzione internazionale dell’ONU, UNCLOS del 1982, sul mare e più recentemente Ankara ha rivendicato il diritto ad estendere le acque di propria competenza nel Mediterraneo, fino a ratificare un accordo in tal senso con la Libia lo scorso novembre, smentendo quanto concordato precedentemente in tema di confini marittimi tra Grecia, Egitto e Cipro, con l’appoggio di Francia e Italia. La cancelliera Merkel, anche nella sua veste di Presidente di turno del Consiglio Europeo, aveva promosso una mediazione tra Grecia e Turchia ma alla soglia della firma di una dichiarazione congiunta tra i governi dei due paesi, che doveva segnare l’avvio delle trattative, il governo greco ha invece annunciato di aver raggiunto un accordo con Il Cairo sulla reciproca delimitazione della acque territoriali. Ankara ha giudicato questo un atto ostile, contrario alla ricerca di una soluzione diplomatica, e, scortata per mare e per cielo, ha inviato una nave per avviare delle prospezioni nelle acque contestate con la Grecia. Nel frattempo, qualche giorno fa, è stato tracciato il volo di un drone armato dell’esercito turco intorno all’isola greca di Rodi, come azione aggressiva finalizzata a costringere a negoziare gli attori coinvolti.

I TENTATIVI DI CONCILIAZIONE E LA POSIZIONE DELLA FRANCIA

Alle azioni intraprese sul campo, però, secondo uno schema che gli è proprio, Erdoğan ha accompagnato parole più concilianti: “Uniamoci a tutti i paesi del Mediterraneo e troviamo una formula che sia accettabile per tutti” ha dichiarato e il Ministro della Difesa turco Hulusi Akar ha aggiunto: “La Turchia vuole risolvere i suoi problemi con la Grecia nel dialogo del Mediterraneo orientale. Siamo a favore del diritto internazionale e delle ragioni di un buon vicinato”. Questa volta, però, all’attitudine conciliante della cancelliera Merkel ha fatto eco una posizione molto dura della Francia, che annovera ormai una sfida continua con la Turchia su quasi tutte le questioni aperte del Mediterraneo alla Siria e alla Libia (passando per la visita del Presidente Macron a Beirut che ha suscitato l’irritazione di Ankara). Macron ha infatti dichiarato: “Ho deciso di rafforzare temporaneamente la presenza militare francese nel Mediterraneo orientale. Lo farò nei prossimi giorni in collaborazione con i partner europei, compresa la Grecia. La situazione nel Mediterraneo orientale è allarmante. Il passo unilaterale della Turchia sull’esplorazione petrolifera provoca tensioni, ma queste devono terminare per consentire un dialogo pacifico tra i vicini e tra gli alleati all’interno della NATO“. Per capire come si collocano questi recenti sviluppi nel quadro della politica di Erdoğan, ne abbiamo parlato con Gaetano Sabatini, Direttore dell’ISEM – CNR, Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, e Professore ordinario di Storia economica presso l’Università degli Studi Roma Tre, dove ha insegnato anche Geopolitica economica.

DIETRO LO SCONTRO CON LA GRECIA L’OMBRA DELLA CRISI TURCA

Professor Sabatini, può spiegare a Policy Maker cosa c’è dietro le azioni provocatorie che Ankara sta conducendo nel Mediterraneo orientale?

Gaetano Sabatini: Dietro vi è, indubbiamente, la gravissima crisi economica della Turchia che Erdoğan sta disperatamente cercando di coprire. Sulla Turchia sta per abbattersi una tempesta finanziaria, che potrebbe risultare fatale e alla quale Erdoğan rischia di non sopravvivere politicamente. Solo un cospicuo prestito internazionale potrebbe salvare la Turchia dal collasso, ma al contrario il presidente turco prova a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche accendendo il nazionalismo con azioni in patria e nel Mediterraneo. La riconversione di Santa Sofia in moschea e le provocazioni militari nei confronti della Grecia in materia di esplorazioni energetiche possono essere lette in quest’ottica. Contemporaneamente però Ankara cerca un accordo internazionale per dare ossigeno alle casse turche, rivolgendosi come sempre a Stati Uniti, Fmi, Ue e agli altri partner internazionali.

Ma la Turchia avrà maggiori possibilità di trovare prestiti all’estero per salvare la sua economia con o senza Erdoğan?

GS: Certamente senza! Immaginiamo una Turchia senza le leggi liberticide di Erdoğan, con un quadro politico interno ed esterno più stabile e meno polarizzato (si pensi solo alla questione curda), questa potrebbe essere in grado di ottenere con più successo un prestito internazionale. Questo lo pensano ormai anche molti turchi dei ceti medi, che in passato lo hanno sostenuto, e per questo Erdoğan potrebbe avere le ore contate. Naturalmente Erdoğan cercherà di impedire con ogni mezzo questo scenario e lo sta già facendo appunto con le azioni nazionaliste in patria e nel Mediterraneo, ma si tratta di gesti disperati, di corto respiro. Non è difficile pensare che non sarà lui a negoziare il prestito. I principali centri di potere turchi lo manderanno a casa per negoziare meglio; una importante conferma in tal senso viene dalla frammentazione del partito di Erdoğan, l’AKP, in varie forze politiche.

IL PUNTO DEBOLE DI ERDOĞAN E L’ECONOMIA TURCA

Tutta l’aggressività di cui ha dato prova la politica estera di Erdoğan degli ultimi anni, in una prospettiva che è stata – da lui per primo – chiaramente etichettata come neo-ottomana, è stata anche un modo per nascondere la crisi economica strisciante del paese, mentre continuava ad erodersi il suo consenso interno e, per converso, si accresceva grandemente il ricorso a leggi liberticide e all’islamizzazione della società turca.

GS: Sì, è così, e c’è da dubitare che la maggioranza dei turchi segua ancora l’AKP. Il ceto medio basso, più osservante dei precetti dell’Islam e quindi più sensibile ai richiami di Erdoğan, è anche la parte della popolazione maggiormente esposto alla crisi e questo potrà renderla meno convinta nel sostegno al presidente.

Ma quali sono i punti più deboli di Erdoğan?

GS: Il punto debole di Erdoğan e dell’Erdoğanomics è il terribile squilibrio della bilancia commerciale turca, non più compensato dai flussi di capitali in entrata, frenati dal Covid-19, dal blocco delle attività e dal crollo del turismo. Gli ultimi dati sulla bilancia commerciale turca sono emblematici e prospettano il disastro: meno 3 miliardi di dollari per il mese di luglio, lo stesso trend degli ultimi mesi a partire da maggio. La Turchia deve sfamare quasi 85 milioni di abitanti ma non essendo mai stato un paese autosufficiente dal punto di vista alimentare, ha bisogno di importare beni di prima necessità e generi alimentari. Nonostante il miglioramento nelle tecniche di produzione in campo agricolo, la Turchia resta fortemente dipendente dall’estero per il suo approvvigionamento. La Turchia d’altro canto è un paese esportatore di alcuni generi alimentari e soprattutto dopo le sanzioni di Stati Uniti e Ue alla Russia, a seguito dell’invasione e annessione della Crimea, ha rafforzato i legami con Mosca, diventandone un importante fornitore di prodotti, in particolare di frutta e verdura.

E il commercio con l’Ue?

GS: I rapporti commerciali Turchia-Ue sono regolati dalle tariffe preferenziali accordate ai paesi associati dall’Unione, ma non sono assolutamente sufficienti ad alleviare la crisi della bilancia commerciale turca giacché i beni che la Turchia potrebbe esportare nel mercato comunitario sono tra quelli che l’Ue già produce in eccesso, con la parziale eccezione della frutta secca e dell’olio, che viene utilizzato per essere miscelato con altri oli alimentari di produzione Ue. In definitiva, solo un ingente prestito internazionale potrebbe riequilibrare gli effetti del deficit commerciale e frenare la terribile svalutazione che la lira turca sta vivendo.

Ma non ci sono altre fonti di capitali provenienti dall’estero?

GS: Ci sono, ma hanno anch’esse registrato una forte contrazione: gli investimenti stranieri a causa della instabilità interna e le rimesse degli emigranti a causa degli effetti della pandemia di questi ultimi mesi. Per lo stesso motivo è crollato anche il turismo, che tuttavia era in difficoltà già prima del Covid-19, a causa delle tensioni internazionali e della deriva autoritaria del presidente, che aveva soprattutto raffreddato il turismo europeo. In un primo momento questa caduta era stata compensata dai flussi provenienti dalla Russia e più in generale dall’Europa orientale, ora però anche quel turismo è bloccato a causa della pandemia.

COME USCIRE DALLA CRISI?

Come si può immaginare, dunque, che la Turchia possa uscire da questa crisi?

GS: Innanzitutto intervenendo sulla politica monetaria: nonostante gli sforzi della Banca Centrale Turca, che ha per questo bruciato una parte importante delle sue riserve, la lira turca si è deprezzata sempre di più, anche perché Erdoğan si oppone caparbiamente all’adozione di qualsiasi misura di politica monetaria restrittiva. La fase di caduta generalizzata della domanda sui mercati internazionali, peraltro, priva la Turchia dei benefici effetti sulle sue esportazioni che la svalutazione della lira in altri tempi le aveva regalato, in attesa di qualche prestito internazionale che salvasse un indispensabile alleato della NATO.

Si può immaginare che anche in questo caso, alla fine, intervengano gli Stati Uniti?

GS: Il contesto internazionale è cambiato radicalmente e non sarà facile trovare alleati ben disposti nei confronti della Turchia: gli Stati Uniti non sono gli stessi del passato e con Trump si mostrano più ondivaghi che mai. Per questo Erdoğan sta mettendo in campo tutti gli strumenti di negoziazione che ha a sua disposizione per avere forme di sostegno dalla finanza internazionale. Ma il rischio di fallire è alto: Fmi e Ue non sembrano essere particolarmente solerti nel venire in soccorso del presidente e i rapporti con gli Stati Uniti sono, come detto, incerti non meno di quelli con la Russia e la Cina. Pechino, poi, che dopo il 2008 aveva elargito prestiti a profusione, per investimenti, opere pubbliche, costruzioni, etc., appare ora molto più cauta, per il timore di un’eccessiva esposizione finanziaria.

Inoltre, un altro motivo per cui Erdoğan non troverà nella Cina un alleato disposto a concedere prestiti, è la concorrenza della Turchia in Africa, che alla Cina non piace affatto. Insomma, una perfetta tempesta politico-finanziaria è dunque servita e non è facile immaginare che sarà Erdoğan a portare la Turchia fuori da essa.

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