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La Tunisia ha un nuovo governo, votata la fiducia a Elyes Fakhfakh
Il 26 febbraio il Parlamento tunisino ha votato la fiducia al governo guidato da Elyes Fakhfakh. L’analisi del Cesi
Il 26 febbraio il Parlamento tunisino ha votato la fiducia al governo guidato da Elyes Fakhfakh. Il giorno successivo, l’esecutivo composto da 30 membri si è recato presso il Palazzo di Cartagine per prestare giuramento. Dopo circa 5 mesi dalle elezioni tenutesi il 6 ottobre scorso, la Tunisia ha quindi un nuovo governo per affrontare le tante sfide sociali ed economiche che attanagliano da ormai 10 anni la transizione al post-Ben Ali. Tuttavia, Fakhfakh si trova di fronte a diversi ostacoli di natura politica.
GLI OSTACOLI AL NUOVO ESECUTIVO
Innanzitutto, la base parlamentare del nuovo esecutivo è estremamente ridotta, appena 111 deputati ovvero 2 in più della maggioranza assoluta. Numeri che difficilmente possono garantire un orizzonte di manovra stabile al governo in un panorama politico come quello tunisino, particolarmente incline a costanti cambiamenti della geografia parlamentare e interessato da una spiccata tendenza alla frammentazione.
Un secondo ostacolo risiede nella composizione eterogenea della maggioranza di governo. A sostenere Fakhfakh si sono prestati il partito conservatore islamista Ennhadha, i progressisti Achaab (Fronte popolare) e Attayar (Corrente democratica), Tahya Tounes (Viva la Tunisia, fondato dall’ex premier Youssef Chahed), e al-Badil Ettounsi (L’Alternativa tunisina, dell’ex Premier Mehdi Jomaa).
Un’ulteriore fonte potenziale di instabilità deriva dalla fine della stagione del consenso che aveva ridotto l’esposizione di Ennahda al governo, invisa a quelle potenze regionali che contrastano l’islamismo politico, includendo sempre anche la principale forza del campo laico. Infatti, l’esecutivo Fakhfakh non è riuscito a ottenere il supporto di Qalb Tounes (Cuore della Tunisia), partito laico guidato dall’imprenditore Nabil Karoui e seconda forza in Parlamento con quasi 40 deputati. In questo senso, Karoui potrebbe trovare una sponda nell’Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e nell’Egitto per indebolire il fronte governativo.
Articolo pubblicato su cesi-italia.org