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Non solo Covid, il Giappone affronta anche la recessione economica

Giappone

L’economia del Giappone era in recessione già nel primo trimestre dell’anno e la diffusione della Covid-19 ha ulteriormente esacerbato le difficoltà economiche. L’approfondimento di Mara Cavalleri per il Caffegeopolitico

Ancor prima dello scoppio della pandemia, nel dicembre 2019, il premier Shinzo Abe aveva annunciato un necessario intervento governativo corrispondente a 120 miliardi di dollari, volti principalmente alla costruzione di infrastrutture. La diffusione del virus in Cina ha avuto come primo effetto quello di frenare la produzione industriale, soprattutto del comparto automobilistico. In seconda battuta, la crescita dei timori per la salute nonché della pericolosità del coronavirus ha portato a una drastica riduzione dell’afflusso di turisti stranieri, nonché a un generale clima di forte incertezza. Nessuno si è dunque stupito di fronte ai risultati macroeconomici di gennaio-marzo: -21,8% di esportazioni, -17% di investimenti privati, -3,1% di consumi domestici. Anche in Giappone quindi, come in Italia, si parla “della più grande sfida dai tempi del dopoguerra”.

UN PACCHETTO DI STIMOLI MAI VISTO PRIMA

A metà marzo Abe aveva reso noto che il Governo, in collaborazione con la Bank of Japan e un panel di esperti, stava lavorando a un pacchetti di stimoli enorme, mai visto prima. Abe ha mantenuto la parola data: il 30 aprile la Dieta ha approvato un decreto per un budget supplementare di 117mila miliardi di yen, di cui 1.800 allocati esplicitamente per la lotta alla Covid-19, mentre per le famiglie e le imprese in difficoltà i fondi stanziati sono invece 19.400 miliardi. Gran parte della cifra rimanente riguarda misure per la “fase 2”, quindi sussidi alle famiglie per viaggi ed eventi (la cosiddetta GoTo campaign, volta a sostenere la domanda interna), ma soprattutto programmi di prestito e moratorie alle tasse. Un termine molto utilizzato dagli economisti giapponesi per definire queste misure volte a stimolare direttamente il PIL è mamizu, ovvero “acqua fresca”. Le nuove risorse sono finanziate dall’emissione di titoli di Stato, operazione sicuramente rischiosa in un Paese dove il rapporto debito/PIL è superiore al 200%. Ciononostante Abe dimostra così facendo la volontà di attenersi alle linee guida della sua stessa Abenomics. In altre parole, non vuole fallire sul campo dell’economia, costi quel che costi.

UNA SOCIETÀ DIVISA

Esattamente come succede tuttora in molti Paesi, le preoccupazioni per il prolungarsi dell’emergenza e il conseguente impatto sull’economia si fanno sempre più pressanti. A inizio maggio si facevano insistenti le voci di un possibile aumento dei fondi disponibili (almeno di 1,5 miliardi di miliardi di yen), proprio in concomitanza dell’estensione dello stato di emergenza in alcune aree tra cui la capitale Tokyo (rimosso poi il 25 maggio). Come sottolineato in un interessante commento di Lully Miura, Presidente dello Yamaneko Research Institute, sul Japan Times, la vera questione è ora quello di trovare il giusto bilanciamento tra la necessità di tutelare la salute pubblica ed evitare un tracollo dell’economia: quale dei due scenari è il male minore? Miura dimostra attraverso i dati di una ricerca condotta dall’NLI Research Institute che la presa di posizione su uno di questi due estremi non dipende né da un fattore generazione né dall’appartenenza politica: il fattore determinante è unicamente la capacità economica, ovvero la possibilità concreta di far fronte ad un periodo più o meno prolungato senza ricevere introiti. I dati del Ministero del Lavoro, per quanto sottostimati, rispecchiano un trend sotto gli occhi di tutti: almeno 10mila persone hanno perso la propria occupazione in seguito alle misure di contenimento del coronavirus. Gli ultimi dati sulla diffusione della pandemia (che in Giappone ha causato meno di mille decessi totali) sembrano suggerire una maggiore propensione a “far ripartire la macchina” in tempi rapidi.

 

Articolo pubblicato su il caffegeopolitico.net

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