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Papa Francesco e la moschea di Santa Sofia

Santa Sofia

L’articolo di Affari Internazionali su Santa Sofia che torna a essere moschea e il dolore “geopolitico” di Bergoglio

Da un po’ di anni a questa parte, il mese di luglio, in Turchia, non è (quasi) mai un mese banale. Nel 2016 il golpe di mezza estate – con relativo contro-golpe – ha spianato la strada al referendum costituzionale dell’anno successivo, che ha finalmente realizzato il progetto politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan, ovvero il passaggio della Turchia ad un sistema di governo presidenziale. Quattro anni più tardi, lo stesso Erdoğan ha firmato il decreto con il quale si ordina la riconversione della basilica di Santa Sofia di Istanbul in una moschea. Era dal 1935 che Santa Sofia, per decisione del “padre dei turchi” Mustafa Kemal, aveva una destinazione museale.

Due momenti accomunati non soltanto dall’essere avvenuti nel bel mezzo dell’estate. Il fallito colpo di Stato militare del 2016 e la scelta di rendere nuovamente Santa Sofia luogo di culto per i musulmani rappresentano occasioni, per Erdoğan, per ravvivare la fiamma di un potere che, nei soffocanti confini anatolici per chi si crede imperatore, rischia di spegnersi. Prolungare la propria vita politica potenzialmente fino al 2029 è stato il primo successo; il secondo è stato consegnare su un piatto d’argento Santa Sofia nuovamente musulmana alle frange più conservatrici della società e ai nazionalisti turchi. In un momento in particolare in cui i voti di questi ultimi sono più che mai preziosi.

La provocazione è prassi consuetudinaria del sultano Erdoğan. Stavolta, però, alle reazioni internazionali, si unisce anche quella di papa Francesco. “Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato”. Otto parole, dette durante l’Angelus del 12 luglio, che acquisiscono un significato più ampio in seno al messaggio politico del pontificato di Bergoglio. Su tutti, gli effetti che la scelta del presidente turco avrà sul dialogo interreligioso – vettore imprescindibile sul quale muove la geopolitica di Francesco – e i rischi della commistione – apparentemente inestirpabile – tra politica e religione, che il pontefice rigetta e condanna.

ERDOGAN, LEADER TURCO E MUSULMANO

Il 24 luglio – tanto per cambiare – di quattro anni fa, una decina di giorni dopo il mancato golpe, il sindaco di Ankara, Melih Gökçek si premurò, in diretta televisiva, di augurare alla Turchia ferita una pronta guarigione. O meglio: alla Turchia e al mondo islamico. Del resto, secondo Gökçek, Turchia e mondo islamico condividono lo stesso leader: Erdoğan. Il presidente turco si sente e si comporta da califfo. Un termine che, in Occidente, spesso perde la connotazione religiosa che la lingua araba gli ha donato: il califfo è il vicario e successore di Maometto, dunque guida spirituale – e non solo – dei credenti musulmani. Erdoğan ambisce a rappresentare il mondo islamico nella sua interezza, e sulla preponderanza degli islamisti nei centri nevralgici del Paese fonda il suo schema di potere. Dall’Anatolia profonda ad Ankara, passando anche per la europea Istanbul, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ha riconfermato il suo bacino elettorale, che coincide con la penisola sospesa tra Mar Nero e Mediterraneo. Una penisola che, non a caso, papa Francesco nel suo viaggio in Turchia del 2014 aveva definito come “ponte naturale tra due continenti”. Nel dialogo interreligioso, processo che Bergoglio sta portando avanti sistematicamente durante il suo pontificato e sostanziato nel Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi assieme al Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib, la Turchia ricopre obbligatoriamente il ruolo di ponte. La riconversione di Santa Sofia, in questo processo, può essere un intralcio non da poco: papa Francesco lo sa e, durante l’Angelus, non ha voluto tacere.

VOTI E PAURE: RELIGIONE E POLITICA

Far tornare Santa Sofia una moschea è (anche) regalia elettorale. Le amministrative dello scorso anno hanno colpito duramente il sistema erdoganiano. Il Partito Repubblicano del Popolo ha sottratto allo schema di potere sia Istanbul, sia Ankara. A ciò, qualche mese dopo, si è aggiunta la crisi sanitaria del coronavirus, che ha fiaccato l’economia nazionale, già molto indebolita. L’occasione di battere un colpo, solleticando la pancia dell’elettorato del Movimento nazionalista che sostiene l’Akp e dei conservatori musulmani con la riconquista di Santa Sofia, era troppo ghiotta. Così facendo, inoltre, Erdoğan continua nello smantellamento della creazione laica di Atatürk, fase secolare della vita dello Stato turco invisa ai riferimenti elettorali del presidente. Religione ancora instrumentum regni? Di fatto, sì. Ed è qui che la visione di Francesco si oppone diametralmente a quella di Erdoğan. L’uso della religione a fini politici rende impossibile la creazione di un sistema internazionale alternativo, più inclusivo e integrato, poiché punta alla divisione tra un bene, ovviamente incarnato da chi compie la divisione stessa, e un male, altrettanto rappresentato da chi si trova al di là del confine. Negli Stati Uniti – dove fondamentalisti evangelici e cattolici integralisti stanno acquisendo sempre più peso in politica – come in Turchia, papa Francesco vuol porre fine alla legittimazione religiosa del potere. Ne va della sua strategia geopolitica per la quale le religioni, vere nazioni transnazionali e culture viaggianti, devono tendere all’umanità intera e non a singoli popoli eletti.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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