skip to Main Content

Presidenziali Usa 2020, come si preparano i Democratici

L’articolo di Massimo Martinelli per Start Magazine sulle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2020 

Lo aspettavano come le Tavole della Legge sul Sinai! E invece lo Special Counsel Mueller, il novello Mosè che avrebbe dovuto consentire ai Democratici di riprendersi la Casa Bianca, “rubata” da Trump, il traditore al servizio di Putin (oggi, Eric Swalwell, Deputato Democratico della California: “Donald Trump works on Russia’s behalf”), scrive nel suo rapporto che Trump è fuori da tutto. Non ha complottato con i Russi (che pure avrebbero complottato molto volentieri con lui). Non ci sono elementi che mostrino che abbia ostacolato la giustizia. Niente di niente. E così per i figli, per il genero e per quelli che hanno lavorato nella campagna elettorale e nella transizione.

DEMOCRATICI DISPERATI

I democratici sono disperati, sapevano anche loro da tempo che Mueller non aveva trovato niente sulle elezioni del 2016 (le incriminazioni che son state fatte non riguardano la campagna elettorale), speravano però che la formulazione delle conclusioni lasciasse qualche appiglio che permettesse loro di tirarla avanti fino alle elezioni del 2020.

Non è così. I più bravi e navigati si sono già smarcati.

Nancy Pelosi, la speaker democratica della Camera dei Rappresentanti, non aveva neppure aspettato la consegna del rapporto Mueller, per dire che l’impeachment di Trump non le interessava, “non ne vale la pena” aveva detto, riferendosi alla spaccatura pro/contro Trump che già c’è nel Paese e che una procedura di impeachment non farebbe che acuire.

Altri che si erano più esposti, sono più in sofferenza, ma insomma la storia di Trump, che ha rubato l’elezione accordandosi con i Russi è sostanzialmente alle nostre spalle.

Adesso è veramente partita la corsa alle elezioni del 2020.

INTANTO I REPUBBLICANI PUNTANO SU TRUMP

Per i Repubblicani non dovrebbero esserci grandi problemi, Trump sarà il candidato, le vecchie famiglie Repubblicana faranno un po’ di capricci e qualche dispettuccio (i Bush hanno già cominciato), ma non dovrebbero esserci molti problemi.

Per i democratici invece la situazione è molto diversa. La lista dei candidati è al momento un elenco telefonico (sono una ventina), però come sempre succede molti moriranno tra il primo ed il secondo turno delle primarie. Rimarranno certamente Joe Biden, Barney Sanders, Kamala Harris e Beto O’Rourke. Potrebbero avere qualche chances anche Elizabeth Warren e Kirsten Gillibrand. Quale è il problema di questi candidati? Che potrebbero fare il bis di Hillary Clinton. Gli strateghi democratici si stanno arrovellando su questo punto.

LA SCONFITTA DI HILLARY CLINTON

Hillary Clinton, come tutti sanno, non ha perso per il voto popolare: aveva quasi 3 milioni di voti in più di Trump. Ha perso nel collegio elettorale. Questa è una tipicità statunitense che spesso viene dimenticata (anche dagli americani): per far si che tutti gli Stati della Federazione avessero un peso nella elezione del Presidente, i Padri fondatori avevano previsto che la votazione per la Presidenza venisse fatta per Stati, i quali hanno diritto ad un certo numero di eletti nel collegio elettorale nazionale (gli Stati più grandi hanno più seggi, quelli più piccoli meno, però ogni Stato è presente, dal più piccolo al più grande). Questo fa sì che se un candidato stravince in uno Stato molto popoloso, anche se prende il 100% dei voti, comunque prende solo i seggi che sono destinati allo Stato in questione.

In pratica c’è un tetto, i voti in più sono “inutili”. Con la Clinton è stato clamoroso, ma anche Al Gore vs George W. Bush andò allo stesso modo. Gore aveva 500.000 voti popolari in più ma nel collegio elettorale perse 266 contro 271. Per questo motivo è importante che chi vince le primarie sia un personaggio che riesca ad essere vincente in quanti più stati possibili e che nel contempo sia apprezzato dall’elettorato democratico. Il punto è che l’elettorato Democratico è cambiato in questi ultimi 20 anni.

Steve Phillips, un opinionista del New York Times, fondatore di Democracy in Color, una piattaforma multimediale per il rafforzamento della “New American Majority” è l’autore di un libro molto utile per capire il problema. La copertina spiega tutto: “Brown is the New White: How the Demographic Revolution Has Created a New American Majority”. La tesi è proprio questa: la nuova maggioranza Americana è Brown, marrone, non White, bianca. Nel 1965 il 12% della popolazione americana era di colore, all’inizio del 2017 era il 38%.

UNA NEW AMERICAN MAJORITY?

Ogni giorno nascono 7000 bambini di colore di fronte a 1000 bianchi. Obama venne votato dal 80,5% dell’elettorato di colore e dal 39% di bianchi.
Allora quale è la tesi dei molti sostenitori del New American Majority?

Il partito Democratico ha a disposizione un maggioranza stabile (anzi destinata a crescere, nel 2020 potrebbe essere intorno al 53%) però deve essere attrezzato per raccoglierla.

Il ticket democratico del 2016 (Hillary Clinton – Tim Kaine) bianco e moderato non poteva raccogliere tutto il voto di colore. Peraltro il partito Democratico ha praticamente investito 0 dollari per la mobilitazione dell’elettorato nero, privilegiando invece il recupero dei “White swinging voters” (cioè i senza partito, che a volte votano repubblicano ed a volte democratico). Se la tesi fosse vera dei candidati attualmente in lizza andrebbe bene solo la Kamala Harris, che è di origine giamaicana. Gli altri sono ultra bianchi e non sembrano rispondere all’identikit del candidato della New American Majority. C’è un problemino però: e se puntando sulla new Majority Brown i democratici perdessero consistenti fette del loro tradizionale elettorato bianco?

Trump lo spera.

 

Articolo pubblicato su Startmag.it

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Back To Top