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Presidenziali Usa, Trump alla prova della guerra commerciale con Pechino

Usa

Pubblichiamo un estratto del dossier “Presidenziali Usa 2020 – Come Donald Trump può conquistare la riconferma” redatto da Stefano Graziosi per il Centro Studi Machiavelli presentato lo scorso giovedì alla Camera

Notoriamente un fattore fondamentale per cercare di capire quale possa essere l’esito di una campagna presidenziale americana è costituito dall’andamento dell’economia. Sotto questo aspetto, la situazione per Donald Trump non appare al momento negativa. Secondo il Bureau of Economic Analysis, gli Stati Uniti hanno visto crescere il proprio prodotto interno lordo del 3,2% nel primo trimestre del 2019: un dato ampiamente superiore al 2,5%, stimato dagli analisti. Un dato positivo che non si registrava dal 2015. Nello stesso periodo, le esportazioni sono aumentate del 3,7%, mentre gli investimenti in prodotti di proprietà intellettuale hanno visto un incremento dell’8,6%1. Ottimi risultati si sono registrati, poi, sul fronte del lavoro. Ad aprile del 2019, il tasso di disoccupazione è sceso al 3,6% (con 263.000 nuovi posti di lavoro), raggiungendo il suo livello più basso dal dicembre del 19692. Come si può vedere, si tratta di una situazione abbastanza favorevole, su cui il Presidente sta ovviamente puntando molto nella campagna elettorale in corso. Tanto che, soprattutto nei dibattiti televisivi fin qui avvenuti, i candidati alla nomination democratica non sono granché riusciti a muovere convincenti attacchi a Trump sul fronte dell’economia.

Ciononostante il Presidente sa di non poter dormire sonni troppo tranquilli. La strada verso le presidenziali del 2020 è infatti ancora lunga. E, secondo alcuni economisti, all’orizzonte potrebbe stagliarsi il rischio di una recessione, soprattutto dopo che – lo scorso agosto – si è verificata l’inversione della curva dei rendimenti. Un’eventualità che Trump sa perfettamente di non potersi permettere. Anche perché gli unici due presidenti a non essere stati riconfermati negli ultimi quarant’anni, Jimmy Carter e George H. W. Bush, si ritrovarono entrambi a dover gestire contesti economici di profonda difficoltà.

Da questo punto di vista, quello che la Casa Bianca teme non è tanto una catastrofe assimilabile alla Great Recession del 2008, quanto – semmai – qualcosa di più sottile e subdolo. Qualcosa di simile alla recessione silenziosa che si verificò a cavallo tra il 2015 e il 2016: una recessione che colpì soltanto alcuni settori dell’economia americana (soprattutto il comparto energetico e quello agricolo)3. Ma che bastò tuttavia per mettere in serissima difficoltà il Partito Democratico, all’epoca al governo con Barack Obama, nel corso delle presidenziali di tre anni fa.

In questo senso, il Presidente si trova davanti a due incognite non indifferenti. In primo luogo, troviamo i suoi burrascosi rapporti con la Federal Reserve: sono mesi che Trump chiede al presidente della banca centrale americana, Jerome Powell, un energico taglio dei tassi di interesse. Una linea che tuttavia quest’ultimo non sembra troppo disposto a seguire. Pur non risultando esattamente un falco, Powell è comunque fautore di un certo rigorismo e – non a caso – la sua nomina nel 2017 rappresentò il frutto di un compromesso tra Trump e l’establishment del Partito Repubblicano.

 

L’inquilino della Casa Bianca necessita comunque di una politica monetaria maggiormente espansiva. E, questo, sostanzialmente per due ragioni interconnesse. Innanzitutto Trump teme un precedente: quello del 1992, quando George H. W. Bush non ottenne la rielezione e attribuì la causa della propria sconfitta all’allora presidente della Fed, Alan Greenspan, che si era rifiutato di tagliare i tassi come da lui richiesto. L’altro fattore da considerare è che Trump auspicherebbe un dollaro meno forte, per favorire le esportazioni americane e rendere conseguentemente gli Stati Uniti più competitivi nella guerra tariffaria con la Cina.

E qui veniamo alla seconda incognita che grava sulla rielezione del magnate. Il Presidente americano viene spesso biasimato per aver intrapreso il conflitto commerciale con Pechino. C’è chi ne critica il protezionismo e chi parla addirittura di una questione personale. In realtà, la situazione appare un po’ più complessa di come spesso viene posta. Già Barack Obama aveva riconosciuto il pericolo incarnato dalla Cina sul fronte commerciale. E anche lui aveva deciso di prendere provvedimenti, per quanto di natura opposta ai dazi trumpisti. L’ex Presidente era infatti convinto che si potesse arginare la concorrenza di Pechino incrementando il libero scambio. In questo senso, siglò nel 2016 la Trans Pacific Partnership: un trattato commerciale tra gli Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico, con lo scopo di isolare la Repubblica Popolare. Quell’intesa si attirò tuttavia durissime critiche in patria per le ripercussioni negative che avrebbe determinato sui posti di lavoro americani. Critiche che non vennero solo da Trump ma anche da Hillary Clinton e Bernie Sanders. Per battere la Cina, il magnate newyorchese propose di contro una linea protezionista e conquistò così il voto della classe operaia della Rust Belt nel novembre del 2016. Quando, poi, nel 2018 passò dalle promesse ai fatti, riscosse il plauso di svariati esponenti democratici, come il senatore dell’Ohio, Sherrod Brown, e il senatore della Pennsylvania, Bob Casey.

Insomma, al di là di come la si possa pensare sull’efficacia strategica dei dazi, bisogna sottolineare almeno tre elementi. Innanzitutto che il problema commerciale cinese esiste e che ne sono consapevoli gli stessi democratici. In secondo luogo, come detto, questa linea Trump la aveva promessa in campagna elettorale e non si tratta quindi di un ghiribizzo estemporaneo. Infine, non va dimenticato che l’attuale Presidente non è mai stato un protezionista ideologico ma selettivo. Trump ha infatti sempre sostenuto la necessità di sostituire il «commercio libero» con il «commercio equo». E, in quest’ottica, le tariffe vengono intese come uno strumento di pressione, non come un fine in sé stesso. Si tratta, del resto, di una strategia simile a quella adottata dallo stesso Ronald Reagan, negli anni ’80, contro il Giappone, quando impose dazi su svariati prodotti di importazione nipponica. Sulla guerra tariffaria Trump si giocherà gran parte della propria rielezione. Si tratta di una scommessa indubbiamente rischiosa. Ma era una via che, con ogni probabilità, non poteva non essere intrapresa.

In tutto questo, il Presidente sa bene che dovrà cercare di tenere alto il livello di crescita economica per tutto il 2020. E, nonostante le pericolose tensioni con la Federal Reserve, potrebbe avere una carta importante da giocarsi tra l’autunno e l’inverno: la riforma infrastrutturale, da lui presentata lo scorso aprile. Un piano ambizioso da 2.000 miliardi di dollari, che potrebbe aiutarlo enormemente nei mesi più agguerriti della campagna elettorale. Il problema per lui è semmai riuscire a far digerire questa proposta al Partito Repubblicano, visto che gran parte degli investimenti dovrebbero essere pubblici e molti conservatori fiscali vedono in questa riforma sgraditi accenni al New Deal di rooseveltiana memoria.

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