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Il progetto dell’Unione europea dopo la Brexit

Qatargate

Un progetto di Europa per il post Brexit nell’articolo di Giovanni Ciprotti

Tra pochi giorni, il 31 dicembre, le strade dell’Unione Europea e della Gran Bretagna torneranno a dividersi dopo 48 anni, gli ultimi quattro dei quali trascorsi a negoziare i termini della separazione decisa con il referendum britannico del 23 giugno 2016.

Un rapporto tormentato sin dall’inizio, un matrimonio di interesse in cui l’amore e la passione non sono mai esistiti, almeno da parte britannica. Tutti gli stati membri hanno sempre difeso i propri interessi nazionali e hanno ceduto con riluttanza quote della propria sovranità nazionale (basti pensare alla Francia ai tempi del presidente Charles de Gaulle), ma la costanza e l’intensità con le quali la Gran Bretagna si è opposta al rafforzamento dell’aspetto sovranazionale delle istituzioni comunitarie non ha eguali nella storia dell’integrazione europea.

Londra ha sempre considerato l’Unione Europea (e prima ancora la Comunità Economica Europea, CEE) come una sorta di accordo commerciale nel quale non riconosceva alcun disegno politico. Per dirla con le parole dello storico Ian Kershaw: “l’Europa era un foglio di bilancio, con le voci attive e quelle passive” (cfr. L’Europa nel vortice, Laterza, 2020, p. 218).

Contraria a entrarvi negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, la Gran Bretagna presentò la prima richiesta di adesione alla CEE nell’agosto 1961, ma il veto della Francia (ribadito anche in occasione di una seconda richiesta nel 1967) impedì che l’Europa dei Sei si espandesse oltre la Manica.

Soltanto nel 1970, con l’uscita di scena di Charles de Gaulle e la necessità per la Francia di bilanciare il crescente peso economico della Germania in Europa, Parigi si mostrò favorevole all’ingresso della Gran Bretagna, che avvenne il 1° gennaio 1973.

Negli anni successivi il Regno Unito ha goduto dei vantaggi derivanti dalla partecipazione ad uno spazio commerciale unico, ma ha fatto pochissime concessioni per trasferire porzioni di sovranità nazionale a Bruxelles, dal rifiuto di far parte del Sistema Monetario Europeo nel 1979 alle deroghe (opt-out) ottenute dal Trattato di Maastricht in poi: sull’applicazione della Convenzione di Schengen, sull’adesione all’unione economica e monetaria, sulla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, sul riconoscimento della Corte di Giustizia europea nel giudicare il rispetto nei paesi membri della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In tema di affari esteri Londra costruì nel tempo un vero capolavoro politico (a suo beneficio, ça va sans dire). Si è opposta a qualsiasi ipotesi di organismo sovranazionale nel campo della difesa e degli esteri, mentre non perdeva occasione di sottolineare la “special relationship” con Washington, sposando costantemente le iniziative statunitensi sullo scacchiere internazionale, dal governo conservatore di Margaret Thatcher a quello laburista di Tony Blair, il quale appoggiò senza remore – e con qualche “forzatura” anche nei confronti del proprio Parlamento – l’invasione dell’Iraq decisa dagli Usa nel 2003.

Infine, nel 2009, il Regno Unito riuscì a far nominare la britannica Catherine Ashton quale primo Alto rappresentante per la politica estera e di difesa dell’Unione Europea, una sorta di ministro degli esteri della UE, una figura introdotta proprio in quell’occasione. Il ruolo più delicato dal punto di vista della collaborazione tra gli Stati membri veniva affidato ad un esponente politico del Paese meno europeista in assoluto. Un caso esemplare di miopìa politica, a voler essere gentili, oppure di autolesionismo!

Negli ultimi mesi l’attenzione generale in Europa si è spostata sul tema coronavirus e sulle politiche ad esso collegate, prima fra tutte il Recovery Fund. Nel luglio scorso, per riuscire ad approvare un accordo sui contenuti del piano, a Bruxelles le riunioni si sono susseguite senza sosta. La seduta plenaria dei leader europei è stata aggiornata più volte. Numerosi i vertici a geometria variabile: a due, a tre o a quattro; il gruppo dei paesi “frugali” in una stanza, quello dei “non frugali” in un’altra, con o senza la mediazione di chi guidava le istituzioni europee. L’Olanda avrebbe voluto un voto all’unanimità per poter far pesare il diritto di veto; alcuni paesi, Ungheria in testa, hanno protestato per la proposta di vincolare l’erogazione dei fondi al rispetto dello stato di diritto. La pandemia Covid-19, non ancora debellata, sta mettendo a dura prova la tenuta della costruzione europea, ma la crisi ha origini lontane.

Negli ultimi 15 anni, dopo il fallimento del progetto che avrebbe dovuto partorire una costituzione europea (affossato dai referendum francese e olandese), il peso politico del Consiglio europeo è aumentato a scapito della Commissione e del Parlamento europei. Il rafforzamento del modello decisionale inter-governativo ha indebolito le istituzioni europee sovranazionali e, contemporaneamente, l’allargamento della UE a oriente ha aumentato il grado di eterogeneità dei paesi membri. L’effetto combinato dei due aspetti ha reso l’Unione meno efficace nell’affrontare le crisi degli ultimi anni: dalla recessione economica del 2007-2008 alla gestione dei flussi migratori, dalla crisi libica alla decisione sul piano di recupero post-Covid.

L’Unione Europea non ha saputo rinnovare la propria architettura istituzionale negli anni in cui i paesi membri passavano da 15 a 28 e non sono stati compiuti passi avanti significativi nella devoluzione di porzioni di sovranità a un centro federale che garantisse unità di azione e capacità decisionale almeno in alcuni ambiti: politica estera, bilancio comunitario e difesa dei confini esterni.

Al contrario, in occasione di ogni crisi si assiste alla formazione di coalizioni di Paesi l’una contro le altre armate. La composizione dei raggruppamenti varia a seconda dell’oggetto del contendere ma a grandi linee sembra abbastanza definita: l’area nord-europea, oggi più nota come dei paesi “frugali”; l’area mediterranea; l’area orientale, il cui nucleo è il cosiddetto “blocco di Visegrad”.

In un’intervista all’Huffington Post del 18 luglio, Enrico Letta aveva suggerito di concedere all’Olanda la condizione di “opting out”, ossia di non partecipare al meccanismo di finanziamento oggetto del negoziato, pur restando membro dell’Unione, in cambio di un beneficio economico (“Detta in modo un po’ brusco: loro mantengono rigidità, prendono soldi in cambio e non fanno saltare l’Europa”). Una soluzione, ha ricordato lo stesso Letta, di cui ha goduto per anni la Gran Bretagna.

Un suggerimento sensato, se funzionale a superare lo stallo e disinnescare il possibile veto olandese. Il meccanismo delle deroghe ha senza dubbio contribuito a superare, negli anni, alcuni passaggi critici nel processo di integrazione europea. Tuttavia, come risulta evidente dal caso della Gran Bretagna, non ha garantito un’adesione più convinta e duratura di chi ha beneficiato delle deroghe e ha complessivamente indebolito l’architettura istituzionale europea. Ne è valsa la pena?

Altiero Spinelli, dal confino di Ventotene, aveva immaginato un’Europa con uno spirito decisamente più cooperativo e, in fondo al percorso, una federazione di stati coesi anche sul piano politico e non solo su quello meramente economico. Per fare in modo che quel progetto abbia ancora qualche chances di realizzazione, sarebbe opportuno dare una nuova spinta al processo di integrazione che poggi almeno su due presupposti: nessuna deroga per gli stati membri e voto a maggioranza (semplice o qualificata) per tutte le decisioni comunitarie.

Articolo pubblicato su notiziegeopolitiche.net

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