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La rivolta di ottobre del Kirghizistan

Kirghizistan

Poco più di sei milioni di abitanti e il Paese più povero fra gli Stati post-sovietici dell’Asia centrale, il Kirghizistan ha vissuto nelle prime settimane di ottobre una nuova rivoluzione, la terza dopo quella del 2005, la rivoluzione dei Tulipani, e quella del 2010, la “seconda rivoluzione kirghisa”. L’articolo di Nona Mikhelidze e Gabriele Rosana

Per capire cosa sta accadendo e perché è scoppiata una nuova rivolta nel Paese dopo i risultati delle controverse elezioni parlamentari del 4 ottobre scorso – ora che la situazione sembra essersi calmata con l’insediamento di un nuovo premier e le dimissioni del presidente – bisogna però guardare agli equilibri politici del Paese.

I partiti politici tradizionali non esistono. Si chiamano partiti, ma lo sono solo formalmente; in realtà si tratta di veri e propri clan, come pure altrove nella scena centro-asiatica. I principali sono due: il clan del sud e il clan del nord, e ogni scontro e rivoluzione avviene per modificare gli equilibrio fra questi due gruppi di potere. I clan sono a loro volta divisi, ma il gioco politico sta tutto nel bilanciamento del potere tra i due principali gruppi d’interessi.

ELEZIONI CONTESE

Alle elezioni di inizio mese hanno partecipato sedici formazioni politiche, ma hanno prevalso i quattro partiti filogovernativi, parte del clan del sud, gli unici a superare la soglia di sbarramento del 7% per entrare in Parlamento. Fra i quattro vincitori, vi è il partito che appartiene al fratello dell’attuale presidente Sooronbay Jeenbekov, Asylbek.

L’esito delle elezioni non ha solo sbilanciato il potere tra i due clan, ma ha anche conferito maggiori poteri al presidente. Gli esponenti del clan del nord si sono mobilitati: all’inizio hanno accusato il governo di brogli, poi sono passati ai fatti, prendendo possesso dei palazzi del potere nella capitale, Biškek, compresi il Parlamento e il palazzo presidenziale, e liberato l’ex presidente Almazbek Atambayev dal centro di detenzione in cui si trovava dall’inizio dell’estate dopo una condanna a undici anni di carcere. Nei giorni scorsi è stato nuovamente arrestato dalle forze di sicurezza.

Proprio lo scontro tra il precedente e l’attuale leader del Paese è una delle chiavi di lettura dell’escalation autunnale nello Stato centro-asiatico. Il presidente Jeenbekov aveva inizialmente fatto perdere le sue tracce, mentre la commissione elettorale annullava i risultati delle elezioni, riconoscendo i brogli. Jeenbekov è riuscito in seguito a riprendere il controllo del Paese, a proclamare lo stato di emergenza, a schierare l’esercito nella capitale e a provare a fermare l’indicazione proveniente dal Parlamento di incaricare Sadyr Japarov come premier ad interim.

Il leader dell’opposizione, che stava scontando una pena detentiva per rapimento e che è stato liberato dagli insorti, è stato confermato ieri dal Parlamento kirghiso alla guida del governo. Jeenbekov aveva detto che, una volta garantita la transizione, sarebbe stato pronto a fare un passo indietro: una mossa accelerata già nelle ore dopo il voto favorevole a Japarov, con le dimissioni confermate il 15 ottobre.

DISORDINI DESTINATI A RIPETERSI

Questa situazione di lotta intestina, come in passato, continuerà a ripetersi nel Kirghizistan, perché non vengono risolti i problemi che vi sono all’origine. Con la pandemia di Covid-19, poi, i problemi economici si sono aggravati. Il virus ha anche colpito la Russia, dove moltissimi cittadini del Kirghizistan lavorano, e oggi trovano difficoltà a inviare le rimesse alle famiglie rimaste in patria. Sono aumentate così disoccupazione e povertà, e con esse cresceranno rabbia e i disordini politici.

A consentire che il caos continui è anche l’assenza di attori esterni. La Russia, nella cui orbita di potere nell’area post-sovietica gravita il Kirghizistan, non ha alcun interesse ad intervenire per risolvere i problemi interni al Paese. Al contrario di quanto è in atto in Bielorussia, infatti, dove un cambio di regime rischierebbe di allontanare il Paese dall’influenza di Mosca, in Kirghizistan questo pericolo non esiste. Chiunque dovesse arrivare al potere a Biškek, l’alleanza con la Russia non è in discussione.

Finché al posto di partiti tradizionali, però, ci saranno clan e gruppi di interesse a contendersi il poter, non vi potrà essere pace in Kirghizistan.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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