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Siria, tutte le ragioni della mossa di Erdogan

Siria Erdogan Italia

L’approfondimento di Carlo Sanna per Affarinternazionali sulle crescenti tensioni nella polveriera siriana

La situazione nel nord della Siria sembra essere sull’orlo di un nuovo precipizio, al centro di un intreccio di preoccupazioni e interessi internazionali. Il tweet con il quale il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoğlu ha annunciato l’imminente intervento ad Est dell’Eufrate per “assicurare la sopravvivenza e sicurezza della Turchia tramite la pulizia dell’area dai terroristi”, è stato seguito dalla dichiarazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Dopo tre anni è giunta l’ora di ritirarsi da queste ridicole e infinite guerre […] e riportare i soldati a casa”.

Tutto ciò accadeva all’indomani di un colloquio telefonico del 6 ottobre tra Trump e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, con cui il primo, di fronte all’intenzione di Ankara di avviare l’invasione del nord della Siria, affermava di non volerne fare parte in nessuna maniera. Il Pentagono ha subito chiarito, tramite il portavoce del segretario alla Difesa, che “non intende dare ‘luce verde’ alle operazioni turche nel nord della Siria”, e che ogni “azione unilaterale potrebbe creare dei rischi per la Turchia”.

L’impennata della tensione è già realtà, dal momento che le truppe di Ankara sono ormai state mobilitate. Tale recrudescenza arriva al termine di un periodo di lenta escalation e pianificazione, che vede la Turchia agire in mezzo alla rete di interessi fra di loro in conflitto delle maggiori potenze globali.

LA SAFE ZONE: IL FULCRO DELL’AGGRESIVITÀ DI ANKARA

«Le nostre forze hanno iniziato un’operazione contro i gruppi terroristici che minacciano il nostro Paese nel nord della Siria […]. Nessuno può vedere la questione siriana come indipendente dagli affari interni della Turchia». Queste parole di Erdoğan, erano già state pronunciate nel 2016 al lancio della Operazione Scudo dell’Eufrate, che avrebbe portato – insieme alla successiva Operazione Ramoscello d’Ulivo della primavera 2018 – all’occupazione da parte delle forze turche della quasi totalità del distretto di Afrin e della parte settentrionale di quello di Aleppo, arrivando così a lambire le rive occidentali del fiume Eufrate.

Ciò dà un’idea di quanto siano profonde le radici delle questioni emerse in questi giorni. Da allora, il braccio di ferro di Ankara con gli Usa e i partner di Astana (Russia e Iran) non si è mai arrestato. L’obiettivo di Erdoğan è infatti la costituzione di una zona cuscinetto nel nord della Siria che si estenda anche al di là delle rive orientali dell’Eufrate. Ciò consentirebbe alla Turchia di controllare i territori attualmente occupati dalla coalizione delle Forze Democratiche Siriane (Sdf), trainata dalle Unità di Protezione Popolare (Ypg), la milizia curda supportata dagli Usa ma considerata organizzazione terroristica dalla Turchia.

È in quest’ambito che la Turchia ha raggiunto nell’agosto 2019 un accordo sulla Safe Zone con gli Usa. Washington aveva acconsentito alla creazione di una zona ‘terrorist-free’ vicino al confine turco-siriano, impegnandosi a realizzare il ritiro e smantellamento dell’Sdf dall’area e iniziando con la Turchia il pattugliamento congiunto del confine. Tuttavia, nel suo recente intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Erdoğan ha criticato l’efficacia di tale accordo e l’inadempienza americana lanciando un ultimatum, a tutela dei suoi interessi, per la sua realizzazione entro fine settembre.

Ormai scaduto, l’ultimatum è il passaggio che connette le vicende passate con quelle attuali.

LE POSIZIONI DEI MAGGIORI ATTORI COINVOLTI (RUSSIA, IRAN, USA)

La Safe Zone è indispensabile a Erdoğan sia per mettere in sicurezza il confine meridionale della Turchia, ma anche per trasferirvi fino a due dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che attualmente si trovano in territorio turco, alleggerendo così il peso demografico, sociale ed economico dalle spalle di Ankara. Quest’iniziativa ha destato non poche critiche, con l’Sdf che parla di “pulizia e sostituzione etnica” che impianterebbe milioni di persone senza alcun legame con la fascia di territorio dalla quale verrebbero sradicati i curdi.

Le critiche non arrivano solo da questo fronte. Da un lato i partner del processo di Astana sono contrari a una prospettiva in cui l’Est dell’Eufrate sia sotto controllo turco. Innanzitutto, Russia e Iran sostengono l’integrità siriana di Bashar al-Assad. Nonostante la Turchia dichiari che questa operazione non la metta in discussione, chiaramente calpesterebbe i piedi ai partner: innanzitutto, colpirebbe le zone d’influenza dell’Iran. Inoltre, metterebbe a dura prova la tenuta degli intendimenti sul nord della Siria con la Russia, già in bilico viste le continue violazioni sull’accordo di de-escalation a Idlib. Tuttavia, dato che gli intendimenti si sono mostrati velleitari, c’è da immaginare che un’eventuale azione turca in contrasto rispetto alla volontà di Mosca possa avere contraccolpi ben più gravi.

Dall’altro lato, gli Usa hanno finora supportato la Sdf e contrastato qualsiasi velleità turca nell’est dell’Eufrate che andasse al di là del già citato accordo dell’agosto 2019. Un’azione unilaterale turca rappresenterebbe dunque una violazione degli intendimenti anche nei confronti di Washington, con cui i rapporti sono già particolarmente tesi in seguito all’acquisto turco dei missili S-400 russi, incompatibili con i sistemi Nato. Lo stesso Trump, su Twitter, ha minacciato di “distruggere e cancellare totalmente l’economia turca” se dovesse intraprendere azioni ‘sconsiderate’.

Gli Usa, presenti militarmente nell’area oggetto delle mire di Erdoğan, hanno più volte sottolineato che non intendono avallare alcuna azione militare. Sul ritiro delle truppe, le dichiarazioni di Trump del  7 ottobre, secondo un alto funzionario amministrativo, riguardano solo un riposizionamento di 50-100 unità delle forze speciali, ma all’orizzonte non ci sarebbe l’abbandono delle basi né un appoggio all’iniziativa turca, lasciando intendere che quest’ultima sarebbe gravida di gravi conseguenze per Ankara.

LE RAGIONI DELLA MOSSA TURCA

In mezzo, la Turchia di Erdoğan e i suoi interessi. Innanzitutto, mossi da equilibri politici interni: mentre il maggior partito d’opposizione Chp (in crescita nei consensi dopo le ultime elezioni amministrative della primavera 2019) incalza sulla necessità di aprire un dialogo con Damasco, l’Akp sembra sempre più schiacciato sulla retorica ultra-nazionalista e securitaria degli alleati di governo del Mhp e su posizioni intransigenti riguardo il cosiddetto terrorismo curdo e i rifugiati siriani in Turchia.

Soprattutto la questione dei rifugiati rappresenta un fardello enorme in termini demografici e socioeconomici, nonché un punto di frizione con l’Ue: a più riprese Erdoğan si è lamentato con Bruxelles dell’insufficienza dell’accordo sui migranti del 2016, minacciando nuove ondate di profughi al verificarsi di ogni recrudescenza del conflitto siriano. Anche in questi giorni, dopo l’incontro tra Çavusoğlu e i vertici europei sul tema migrazioni, ha richiesto un appoggio europeo alla Safe Zone: se non si dovesse realizzare, aveva sottolineato Erdoğan, la Turchia dovrà “riaprire le porte”.

A livello internazionale, l’equilibrismo messo in atto nei confronti di Russia e Stati Uniti ha aperto alla Turchia uno spazio d’intervento finora inedito nel nord della Siria. Con queste manovre, Ankara potrebbe voler ambire a dare un segnale di forza e risolutezza, al fine di condurre i vari attori a un negoziato sulla fascia di sicurezza in cui il peso e la posizione negoziale della Turchia sarebbero ricalibrati verso l’alto.

Questo, però, può rivelarsi un pericoloso campo minato per la Turchia stessa: né dagli Usa né dalla Russia è arrivato un “via libera” formale e inequivocabile, ma entrambi hanno voluto smarcarsi da una responsabilità diretta sulle violenze in corso fissando le condizioni oltre le quali la Turchia non può spingersi, a meno che non voglia incorrere in pesanti ritorsioni.

Erdoğan dunque, nel rincorrere in maniera concreta il suo sogno di Safe Zone, si sta infilando in un sentiero reso sempre più stretto dai paletti degli attendisti Russia e Usa, nel quale il rischio di una spirale di violenza crescente e/o di restare impelagato nella resistenza delle milizie curde potrebbe portare a oltrepassarli, scatenando pericolose ritorsioni.

 

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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