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Trump-Papa Francesco e lo “scisma morbido”

Trump Papa Francesco

I rapporti Trump-Francesco e lo “scisma morbido” all’orizzonte. L’articolo di Pietro Mattonai

“Una persona che pensa solamente a costruire muri, ovunque essi possano essere, e non a costruire ponti, non è cristiana”. “Mettere in discussione la fede di una persona, per un leader religioso, è vergognoso”. Sono iniziati così, nel 2016, quando ancora Donald Trump non era neppure ancora il candidato dei repubblicani alla Casa Bianca, i quattro anni di convivenza tra il presidente degli Stati Uniti più a destra di sempre e il pontefice più a sinistra di sempre, papa Francesco.

Ad esporsi per primo fu Bergoglio, rispondendo a un giornalista che gli domandava del magnate-candidato, con riferimento a uno dei temi più ricorrenti della sua campagna elettorale: il muro al confine con il Messico. La reazione di Trump, immediata, disvelava la faglia che dal passaggio a nord-ovest fino alle isole Falkland – Malvinas, per Francesco – separa Stati Uniti e Vaticano.

Errore comune, in questo caso, è confondere cause ed effetti. Il confronto tra Francesco e Trump è punto di minimo di un andamento da tempo discendente, contrapposizione sotterranea tra imperi universali che freme e scuote le anime dei fedeli d’Oltreoceano. Le felici parentesi del pontificato di Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi non annullano il dissidio di fondo tra il cattolicesimo statunitense, avviluppato al sostrato protestante e calvinista della società americana, e quello relativista di matrice europea.

Ferita divenuta squarcio sotto la presidenza del magnate newyorchese e del papa venuto dalla fine del mondo. Soprattutto perché, su questioni più specifiche, Trump e Bergoglio si collocano ai lati opposti del tavolo: immigrazione, diseguaglianze, economia, ambiente. Temi che hanno esasperato gli animi dei cattolici statunitensi più tradizionalisti e conservatori, custodi dell’ethos nazionale e convinti della superiorità morale del proprio Paese. Battaglie per l’anima dell’America che, a papa Francesco, sembrano però interessare poco.

ADDIO ALL’OCCIDENTE

Un mese dopo l’elezione di Trump, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer firmò un articolo dal titolo “Goodbye West“. Pensato per l’allora neopresidente, ha più senso se oggi rivolto al successore di Pietro. Francesco è conscio delle rotte aperte dalla globalizzazione e intende sfruttarle. L’Europa non è più il cuore pulsante del cristianesimo, centro d’irradiazione del messaggio evangelico. Per Bergoglio, la fine della cristianità occidentale non è pietra tombale della missione, ma pietra miliare: il percorso da percorrere, ancora lungo, porta adesso altrove. Asia e Africa, ma anche America latina, sono i veri luoghi del pontificato di Francesco, che segue le rotte dei gesuiti per annunciare la buona novella. Non l’arroccamento, ma la proiezione.

Un allontanamento dall’occidente cristiano che non significa suo abbandono, naturalmente. Ma che al suo centro – leggasi: negli Stati Uniti – è stato letto come tale. Il rigetto da parte di Francesco della commistione tra sacro e politico, tra religione e Stato, a favore di una visione escatologica del mondo, ha spinto i cattolici statunitensi ad irrigidirsi, preoccupati per la tenuta della civil religion americana, che racchiude l’essenza di uno Stato ispirato da Dio e ne lubrifica i meccanismi.

Bergoglio non vuol essere cappellano militare della Nato, carica d’impaccio alla missione gesuita verso Cina e Oriente. Così, l’America profonda e più conservatrice sbotta: Francesco rinuncia al legame di politica e religione che fa degli Stati Uniti nazione prescelta e rilancia il relativismo distruttivo, articolazione del liberalismo di marca democratica. Laddove il cattolicesimo si fa più conservatore, allora, Trump diventa (e rimane) il candidato da votare.

GLI OPPOSTI NON SI ATTRAGGONO

Nelle ultime settimane lo scontro tra Stati Uniti e Santa Sede ha avuto due picchi. Il primo: il gelido benvenuto in Vaticano riservato al segretario di Stato Mike Pompeo, partito alla volta di Roma dopo aver intimato a papa Francesco di non rinnovare l’accordo con Pechino per la nomina dei vescovi cinesi; il secondo: la nomina cardinalizia dell’arcivescovo di Washington Wilton Daniel Gregory, primo afroamericano a far parte del collegio dei cardinali e tra i più critici verso l’uso strumentale della religione da parte del presidente Trump.

Botti di fine anno – o di fine mandato – a conclusione di quattro anni vissuti su traiettorie parallele. Del resto, base elettorale di riferimento di Trump non è la comunità cattolica americana nella sua interezza. Quest’ultima, ormai, non esiste più: la polarizzazione sociopolitica che attanaglia gli Stati Uniti non ha lasciato intatto il cattolicesimo, sempre più diviso lungo la frattura bipartitica americana. I cattolici conservatori, elettori del Partito repubblicano e solitamente bianchi sono la constituency religiosa di Trump, nonché i veri oppositori di Francesco, ritenuto insensibile e incapace di cogliere l’importanza delle culture war su omosessualità, famiglia e bioetica, che infiammano il Paese sin dagli anni Sessanta e Settanta.

Insensibile e incapace perché Bergoglio, nel suo pontificato, ha dimostrato una predisposizione naturale verso temi che sembrano fuoriuscire direttamente dal capolavoro di John Steinbeck, “Grapes of Wrath”. Ambiente e immigrazione, ma anche diseguaglianze sociali ed economiche. “Questa economia uccide”, ha scritto nell’enciclica “Evangelii Gaudium”, è un veicolo di “sviluppo iniquo e insostenibile”, promossa da “falsi profeti”, che nell’enciclica “Fratelli tutti” pretendono “di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro”. Insomma: l’economia dell’effetto a cascata di reaganiana memoria…

EQUILIBRI DOPO IL VOTO

Al di là della retorica – Joe Biden, in un recente comizio in Georgia ha addirittura citato papa Francesco – Stati Uniti e Vaticano non si riavvicineranno dopo il 3 novembre. La vittoria del cattolico Biden difficilmente metterà a tacere quei media, think tank e organizzazioni del cattolicesimo conservatore che, anzi, potrebbero vedere nell’ex vicepresidente un ulteriore minaccia alla religione civile made in Usa. Un successo di Trump, invece, non farebbe che mantenere invariate le ostilità.

Sullo sfondo, in ogni caso, rimane la possibilità di quello che Massimo Faggioli, su Famiglia Cristiana, ha definito come “scisma morbido” all’interno del cattolicesimo americano. La violenta contrapposizione politica tra democratici e repubblicani, però, fa presagire una crescente divisione tra le parti. Forse, nemmeno troppo morbida.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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