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UE senza UK, come prevenire altre exit

Horizon Europe

L’impatto della Brexit sull’integrazione europea. Così l’Unione europea pensa al suo futuro e a prevenire altre uscite. L’articolo di Gianni Bonvicini

Una valanga di pagine, 1246, con allegati, note e dettagli vari. E ora una massa di commenti, analisi, interviste per comprendere chi ha vinto e chi ha perso nell’infinita battaglia sulla Brexit.

Certo, l’accordo fra Bruxelles e Londra ha almeno evitato il caos che sarebbe seguìto a un non-accordo e questo è certamente un elemento positivo. Da ora in poi seguiranno i fatti e magari anche le sfide fra il premier britannico Boris Johnson e l’Ue, come si è percepito con il provocatorio e immediato accordo commerciale fra Regno Unito e Turchia, proprio in un momento di profonda crisi politica fra quest’ultima e Bruxelles.

Insomma, i futuri mesi e anni saranno pieni di sorprese e la vicenda del distacco di Londra dall’Unione europea non cesserà di esercitare la sua influenza nel bene e nel male. Soprattutto, va subito sottolineato, nel male.

L’exit di Londra rappresenta infatti un vulnus difficile da sanare. Vale forse la pena ricordare come nel 1973 il primo allargamento della vecchia Comunità economica europea dei sei al Regno Unito (oltre a Irlanda e Danimarca) avesse suscitato grandi speranze per il futuro dell’Europa. Era un sogno coltivato anche dai federalisti, in primis da Altiero Spinelli, che da commissario europea nominava come proprio capo di gabinetto un funzionario inglese, prim’ancora della formale entrata di Londra nella Comunità.

In effetti, questo allargamento inaugurava allora una delle grandi politiche di successo di Bruxelles, che passo dopo passo arrivava nel 2007 a un’Unione con ben 28 membri a pieno titolo. Allargamento significava sottolineare l’attrattività dell’Ue, aumentare il suo potenziale economico-commerciale e in prospettiva anche trasformarla in un grande attore internazionale.

Al momento dell’entrata nella Comunità, Londra portava, oltre al peso della sua storia e della sua cultura, anche piccole cose, come il progressivo uso della lingua inglese in una Comunità allora solo francofona e metodi di lavoro burocratici molto più flessibili e innovativi di quelli dell’Europa continentale. In positivo, perfino l’allora premier Margaret Thatcher si convinceva dell’opportunità del ritorno al voto a maggioranza qualificata per tutte le direttive che dovevano servire a completare il progetto di Jaques Delors per il mercato unico europeo.

Ma la stessa premier britannica cominciava a violare le regole finanziarie della Comunità con la sua richiesta di rebate, la restituzione permanente a Londra di parte del suo contributo al bilancio comune. Negli anni questo atteggiamento, che oggi definiremmo sovranista, non ha fatto che espandersi con vari opting-out, dall’euro come da Schengen, dalla Carta sociale come dalla Pesco.

La stessa politica di allargamento è pressoché scomparsa dall’agenda comunitaria, non perché lo volesse Londra – anzi -, ma perché un’espansione continua senza un radicale approfondimento istituzionale non era più sostenibile.

La decisione, quattro anni e mezzo fa, del governo del Regno Unito di uscire dall’Ue con un referendum confermativo poteva di per sé essere vista dall’Unione come l’eliminazione di un ostacolo ormai insormontabile verso qualsiasi proposta di riforma e rafforzamento istituzionale. Ma, in realtà, il forte segnale negativo di questa prima uscita dall’Unione ha colpito direttamente anche la stessa credibilità e tenuta del disegno di integrazione europeo.

La rinuncia di un Paese a far parte dell’Ue non è una questione secondaria, che può essere sanata con un successivo accordo bilaterale. Si tratta di un vero e proprio precedente che può portare a considerare l’integrazione europea come un semplice contenitore, utile per trarne vantaggi economici fintantoché essi si manifestano. Una sliding door da cui si entra ed esce a piacimento.

Già questo concetto di Ue come bancomat si è fatto strada in Paesi problematici come Ungheria e Polonia, il cui modo di agire si colloca nella scia concettuale di future exit. Ma non è detto che altri Paesi come Danimarca (molto vicina alla filosofia di Londra) o i Paesi Bassi di oggi, estremisti del rigore, non possano in futuro seguire percorsi analoghi.

E non è neppure molto utile fare i conti di chi abbia perso o vinto dall’accordo post-Brexit. Anche se a Londra i prossimi mesi dovessero andare economicamente molto male, ciò non servirebbe a sanare l’intrinseca debolezza dell’attuale Unione europea.

È dall’interno delle istituzioni di Bruxelles e dalla volontà di alcuni Paesi membri che dovranno arrivare i rimedi ad un sistema di integrazione, i cui limiti la exit di Londra ha reso ancora più evidenti.

Il Next Generation EU, anche se apparentemente nato come risposta alla pandemia, può rappresentare un primo segnale di recupero di un modo di operare più comunitario. Sempre che si completino i passaggi previsti dal Recovery Fund di attivazione di un debito comune sostenuto dall’attribuzione all’Unione di un diritto di tassazione sovranazionale e di adeguate risorse proprie.

Ma certamente ciò non potrà bastare: va modificata radicalmente la procedura di voto in tutte le istituzioni (compreso il Consiglio europeo) e per tutte le politiche (comprese quella estera e della difesa). La regola dovrà essere sempre quella della maggioranza qualificata e il diritto di veto dovrà scomparire.

C’è da chiedersi se la fantomatica Conferenza sul Futuro dell’Europa, convocata proprio per rispondere alla sfida della Brexit e delle manifeste debolezze istituzionali dell’Ue, riuscirà mai ad affrontare questi vitali problemi. Se non ci riuscirà, prepariamoci ad altre future exit.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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