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Vi spiego la geografia del nuovo Parlamento europeo

L’analisi di Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea,  per Affarinternazionali

Sui risultati delle recenti elezioni europee è già stato scritto molto. In tanti hanno in particolare sottolineato il netto aumento della partecipazione (tranne che in Italia), la mancanza della sperata o temuta ondata nazionalista e la sostanziale tenuta dei partiti europeisti, anche se con significativi spostamenti dai popolari verso i liberali e dai socialisti verso i verdi. Sappiamo anche che, se tutto ciò non modifica gli equilibri di fondo, i compromessi saranno più complicati a partire dalle nomine dei prossimi vertici dell’Unione europea. C’è tuttavia anche un altro angolo di osservazione che merita di essere approfondito.

Il consolidamento dell’organizzazione del Parlamento europeo in gruppi politici transnazionali ha una doppia funzione. Da un lato vuole evitare che l’Assemblea di Strasburgo di trasformi in un altro terreno di confronto fra interessi nazionali. Dall’altro, però, i singoli gruppi parlamentari transnazionali hanno finora anche avuto la funzione di permettere al loro interno una sintesi fra posizioni nazionali che è diversa e per certi versi complementare a quella che si realizza in seno al Consiglio. Ciò è stato particolarmente importante per i due gruppi maggiori, popolari e socialisti. L’obiettivo di acquisire una certa egemonia comportava la necessità di essere inclusivi sul piano geografico, ma il prezzo da pagare era una scarsa coerenza politica e ideologica.

Come vedremo, il problema riguarda anche i nuovi gruppi “emergenti”. La domanda che viene spontanea è fino a che punto le ultime elezioni abbiano introdotto elementi di novità. Ai fini di questa analisi, i partiti nazionalisti ed euroscettici non sono molto importanti. Ci limiteremo quindi a quelli cosiddetti “europeisti”. Una prima cosa che salta agli occhi è che le elezioni del 23-26 maggio hanno introdotto maggiore squilibrio geografico.

PPE, L’ESTINZIONE DI ITALIANI E FRANCESI

L’intuizione geniale dell’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl nel favorire la creazione del Partito popolare europeo (Ppe) come lo abbiamo conosciuto sinora non è stata solo quella di garantire l’esistenza di un gruppo potenzialmente maggioritario, ma anche di avere un contenitore politico in cui non erano presenti solo i tradizionali partiti di origine democristiana ma tutte le principali forze conservatrici. Questa per esempio fu la ragione dell’insistenza per far entrare Forza Italia malgrado le diffuse reticenze a proposito del suo leader storico. Questi partiti non erano necessariamente tutti al governo, ma alcuni di essi lo erano sempre. Il risultato è stato un gruppo al cui interno c’era di tutto, compreso l’ungherese Viktor Orbán.

La caratteristica principale era però la presenza di forti partiti di centrodestra, potenzialmente di governo, in tutti i maggiori Paesi: una situazione che rendeva il Ppe un possibile terreno di sintesi franco-tedesca allargato a Italia e Spagna.  Le ultime elezioni non hanno solo condotto a un indebolimento del Ppe nel suo insieme, ma all’implosione (secondo alcuni la virtuale sparizione) delle due fondamentali componenti francese e italiana: i gollisti (oggi Les Republicains) e Forza Italia. I conservatori britannici erano già usciti da tempo, dando vita al gruppo Ecr.

In queste condizioni, alla Cdu/Csu tedesca – che in questi giorni ha ottenuto la riconferma del suo Manfred Weber alla guida del gruppo parlamentare, ndr -, a parte i nordici e una variegata componente orientale (compreso l’impresentabile Orbán) resta un solo interlocutore in un Paese importante: il Partito popolare spagnolo, peraltro anch’esso in crisi.

S&D, IL FRONTE MERIDIONALE

Le cose non vanno meglio per l’altro gruppo tradizionalmente maggioritario, i socialisti e democratici (S&D). Anch’esso era politicamente poco omogeneo, comprendendo tutte le anime del socialismo europeo, ma anche un certo numero di partiti dell’Est, i realtà elementi riciclati della vecchia nomenclatura comunista. Anche qui i francesi sono quasi scomparsi e i tedeschi sono fortemente indeboliti. Il successo degli spagnoli e dei portoghesi, assieme alla sostanziale tenuta degli italiani, conduce a una certa “meridionalizzazione” del socialismo europeo.

Bisogna dire che sia gli iberici sia gli italiani tendono a essere più pragmatici e meno ideologici dei francesi, ma la quasi scomparsa di questi ultimi indebolisce la rappresentatività del gruppo nel suo insieme. In sostanza, i due principali gruppi politici sono praticamente privi di una importante componente francese. Non è poca cosa.

LIBERALI IN CERCA D’IDENTITÀ

Vediamo ora i liberali, fra i cosiddetti “vincitori” delle elezioni. Il successo è essenzialmente dovuto all’arrivo in massa di 23 deputati francesi della Renaissance di Emmanuel Macron. Questi ultimi pensano di poter dominare il nuovo gruppo. È presumibile che la coesione di questo fronte terrà nell’importante partita delle nomine. Tuttavia, visto con gli occhi dei liberali del nord Europa, il tasso di liberalismo dei deputati macronisti è piuttosto modesto; è quindi difficile che la supremazia numerica possa tradursi in egemonia culturale.

È possibile che si scopra il problema già al momento di definire il nome del nuovo gruppo: comprenderà il termine “liberale”, ancora tossico per molti in Francia? C’è poi un problema speculare a quello del Ppe: l’assenza, stavolta, di una importante componente tedesca.

VERDI UNITI DAI “NO”

Infine, quella dei verdi è considerata giustamente la principale novità di queste elezioni. Il nuovo gruppo sarà l’unico a comportare una forte presenza sia francese sia tedesca, ma una totale assenza di italiani e spagnoli. Trattandosi di una novità, vale anche la pena di interrogarsi sulle implicazioni politiche. È chiaro che l’onda verde rispecchia un sentimento non effimero diffuso nella società. I problemi ambientali e il riscaldamento climatico saranno necessariamente al centro dell’agenda europea. Tuttavia, il meno che si può dire è che i progetti concreti sono per il momento molto vaghi. Nessuno infatti pensa che la soluzione risieda nel diventare tutti vegani, o andare in treno da Stoccolma a Palermo. La sintesi fra ambiziosi programmi ambientali e le esigenze di sviluppo e competitività dell’economia non sarà semplice: basti pensare al problema dell’industria automobilistica e della sua importanza per l’economia europea.

Da questo punto di vista, bisogna notare che le posizioni dei verdi tedeschi e francesi sono molto distanti. I primi sono tradizionalmente pragmatici e pronti addirittura a governare con la Cdu, mentre i secondi sono fortemente impregnati da un’ideologia anticapitalista che tra l’altro non è detto corrisponda alle reali aspirazioni dei giovani borghesi delle città francesi che li hanno votati. Su una cosa i verdi di ogni nazionalità rischiano però di convergere: l’opposizione a nuovi trattati commerciali (in particolare quello con gli Stati Uniti) e a un forte impegno del bilancio Ue nel campo della difesa comune. Parliamo di due dei più importanti problemi che l’Unione dovrà affrontare e i prossimi mesi.

IL RISCHIO DI UN’ASSEMBLEA INDEBOLITA

Tutto ciò può condurre a una conclusione provvisoria. La struttura dei gruppi europeisti del nuovo Parlamento non sarà solo più complicata, ma anche meno coerente sul piano geografico. Questi partiti riusciranno probabilmente a mettersi d’accordo sugli equilibri di vertice. Non vi è inoltre ragione di pensare che non sapranno svolgere egregiamente il loro compito di co-legislatore dell’Unione. È tuttavia possibile che si rivelino più deboli che in passato nell’esprimere orientamenti strategici per l’avvenire dell’Ue e nella loro funzione di accompagnamento della sintesi politica fra i governi. È d’altro canto possibile che questo Parlamento sia anche il riflesso della generale instabilità del quadro politico europeo e che quindi la legislatura potrebbe condurre a importanti cambiamenti anche al suo interno.

 

Articolo pubblicato su Affarinternazionali.it

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