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Cosa prevede il Digital Act dell’Unione europea

Digital Act

Un “Digital Act” per l’Europa. L’articolo di Jean-Pierre Darnis

L’impatto del digitale e delle big tech Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) sull’economia e, in misura più ampia, sulla società assume oggi effetti dirompenti. Assistiamo non soltanto a una crescita esponenziale del mercato digitale, ma anche all’integrazione di settori tecnologici e industriali come le telecomunicazioni, l’automotive o le attività spaziali, che possono determinare scenari totalitari dal punto di vista del controllo delle informazioni.

Per farvi fronte, la Commissione europea ha recentemente presentato un pacchetto legislativo sui servizi digitali. Le due proposte di regolamento presentate dalla vicepresidente esecutiva Margrethe Vestager (Concorrenza e Digitale) e dal commissario Thierry Breton (Mercato interno) dovranno essere discusse e adottate dai due co-legislatori dell’Unione, Parlamento e Consiglio.

La Francia, che avrà la presidenza di turno del Consiglio a inizio 2022, ha già indicato che l’adozione di questi due testi rappresenterà una priorità del suo semestre.

I DUE CAPITOLI DEL PACCHETTO

Nell’economia classica, questi meccanismi regolatori esistono già, sia a livello nazionale – basti pensare alle autorità Antitrust -, sia a livello europeo, con la puntuale azione della Commissione che ha respinto una serie di operazioni anti-concorrenziali, come nel caso del progetto di fusione Alstom/Siemens.

La proposta di regolamento si articola in due capitoli. Il primo, il Digital Services Act (Dsa) definisce delle regole per le piattaforme online anche nel rapporto con il cittadino/utente; il secondo, il Digital Markets Act (Dma) si occupa di concorrenza sul mercato.

Il Dsa intende fornire strumenti contro l’incitamento all’odio, il terrorismo e la disinformazione, creando obblighi maggiori di intervento per le grandi piattaforme. Da questo punto di vista, la questione del controllo degli algoritmi è centrale, ed è su questo che si concentreranno probabilmente le discussioni le più significative nei prossimi mesi.

Nel Dma, le piattaforme vengono prese in considerazione in quanto potenziali barriere (gatekeepers), esercitanti una posizione dominante sul mercato. Queste piattaforme non vengono esplicitamente nominate nel testo della Commissione, ma definite secondo una serie di criteri tra cui volume di utilizzo da parte degli utenti e fatturato in Europa; parametri che permettono già di individuare come le Gafam siano nel mirino. Rimane aperta la porta aperta alla possibile inclusione di altre aziende in caso di emergenza sul mercato europeo di nuovi attori, come Booking, AirBnB, o i colossi digitali cinesi.

L’EUROPA NON È SOLA

Si tratta tutto sommato di una filosofia antitrust già sperimentata negli Stati Uniti nel dopoguerra con misure preventive per evitare una posizione dominante prima che questa giunga a un livello irreversibile: un mix di regole ex ante (di prevenzione) ed ex post (per ripristinare la concorrenza).

Non va dimenticato che il Dma interviene in parallelo alle recenti procedure lanciata dalla Federal Trade Commission americana sulla gestione dei dati personali da parte di Facebook e altri. E anche in Cina osserviamo come il governo abbia recentemente bacchettato l’azienda Alibaba. Lo sforzo europeo non è quindi isolato, ma corrisponde alle volontà delle sovranità statali di riprendere il controllo sul settore.

Il Dma si presenta come asimmetrico, perché non penalizza le aziende piccole o medie, bensì le piattaforme oltre una certa soglia, con la logica di lasciare libere di innovare le start up europee e assoggettando a responsabilità solo i player più grandi. Rappresenta dunque uno strumento politico di correzione del mercato.

LE QUESTIONI APERTE

Ma questo progetto di legislazione non risolve alcune questioni essenziali. Anzitutto, come si applicherà alle aziende americane che esercitano una posizione dominante negli Usa, provocando un effetto collaterale dominante sul mercato europeo? La visione antitrust dell’Europa può portare a una partizione aziendale che non sia concordata con l’antitrust Usa? Esiste una necessità, o perlomeno un’opportunità, per un rinnovato dialogo transatlantico in materia che potrebbe anche portare a norme convergenti se non comuni.

Queste misure rappresentano un freno all’attività delle Gafam, che dovrebbero poi reagire con contestazioni e controproposte. Ma anche lato statunitense esiste una forte volontà di regolare ulteriormente big tech, con la presidenza di Joe Biden che sarà sicuramente attenta al dossier.

Bisogna quindi che le aziende siano molto prudenti e evitino passi falsi come quello del ceo di Alphabet, Sundar Pichai, che si è recentemente scusato con la Commissione europea dopo una fuga di notizie che lasciava intravedere una volontà di campagna aggressiva contro Bruxelles.

La potenza di fuoco delle piattaforme può però essere un fattore controproducente. Il loro iperattivismo “naturale”, che proviene anche della capacità di mettere in piedi enormi team di lobbying e di affari legali, può facilmente creare una sensazione di saturazione da parte delle autorità politiche europee, che potrebbero rigettarne in blocco le pretese. Nonostante la capacità di creazione di valore di queste aziende, esse non sono sufficientemente radicate nella forza lavoro degli Stati membri e si sono anche distinte per la volontà di pagare meno tasse possibili, ad esempio optando per il trasferimento della sede legale in Irlanda, il che non crea un sentimento di identificazione e di legittimità sia da parte dell’opinione pubblica sia delle rappresentanze politiche.

SOVRANITÀ DIGITALE EUROPEA

Il Digital Act può apparire a giusto titolo piuttosto complicato e farraginoso, e quindi potrà poi creare alcuni effetti perversi o distorsioni del mercato. Ma le aziende statunitensi hanno una legittimità assai debole per puntare il dito contro queste contro indicazioni. In qualche modo, l’inceppamento della cosiddetta Google tax impedisce alle stesse piattaforme di poter invocare il loro contributo al gettito fiscale come parte della constituency degli Stati europei; no taxation, no representation.

Il tutto interviene in un contesto politico in cui la Commissione e molti Stati membri hanno dichiarato la volontà di una maggiore sovranità tecnologica e digitale, ma anche in cui è intervenuto un cambio di amministrazione negli Usa, che sembra voler spingere sulle tematiche antitrust nel digitale.

L’impegno della Commissione apre molti dibattiti, ma testimonia anche il ruolo che ha assunto in materia di regolamentazione digitale, un fattore non da poco per consolidare la centralità europea ma anche un’opportunità per un dialogo politico sia con Stati Uniti sia con le piattaforme.

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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