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Fine delle trasmissioni. Lo switch-off della Tv terrestre
In Italia, come nel resto d’Europa, è previsto entro il 2022 il passaggio delle trasmissioni terrestri dal DBV-T al DVB-t2, cioè la tecnologia di trasmissione televisiva più evoluta rispetto all’attuale. L’intervento di Augusto Preta per Start Magazine
È passato ormai un anno dall’intervista con cui Sébastien Soriano, il presidente dell’Arcep, l’Autorità francese delle telecomunicazioni che ha competenze sullo spettro in Francia, poneva al centro del dibattito in Europa, per la prima volta, il tema della chiusura definitiva del digitale terrestre per la distribuzione televisiva.
Così mentre gran parte dei Paesi, tra cui l’Italia, erano ancora impegnati nel trasferimento a servizi di internet mobile della preziosa banda 800 e, successivamente, della banda 700, quest’ultima occupata tuttora da servizi televisivi, uno studio commissionato dalla stessa Arcep dimostrava come le scadenze ipotizzate in precedenza per lo switch-off completo della tv digitale terrestre (2030, con una verifica nel 2025 per valutare lo stato di avanzamento del passaggio alla fruizione della tv su altre reti) necessitassero di una ulteriore revisione per favorire un’accelerazione del processo.
In particolare sebbene lo studio sottolineava come ancora la metà dei telespettatori d’Oltralpe accedeva a fine 2017 ai servizi televisivi via digitale terrestre, gran parte di quelli alternativi avveniva però via ADSL/Fibra (gli altri via satellite e cavo) e, attraverso lo sviluppo sempre più rapido di servizi in streaming via internet (Netflix & co.), questo fenomeno di sostituzione si sarebbe ulteriormente accentuato.
Tutto ciò avveniva mentre nel frattempo lo Stato francese aveva investito grosse somme (3,3 miliardi di Euro) per far arrivare la banda larga ai francesi, comprese le campagne, entro il 2020 e la banda ultra larga (fibra) entro il 2022. A parere di Soriano il paese non poteva permettersi il lusso d’avere una politica così ambiziosa sul versante delle nuovi reti di comunicazione e al contempo continuare ad alimentare un’altra piattaforma, la rete digitale terrestre (DTT), dove l’interesse si affievolisce ogni giorno di più, essendo poi sostituibile con quella IP. Si trattava in questo senso di evitare un doppio costo per reti che starebbero diventando mano a mano nel tempo una la duplicazione dell’altra.
Soriano ricordava infatti (Les Echos, 18 giugno 2018) come “storicamente la scelta di utilizzare le frequenze terrestri si sia basata su un accordo win-win tra lo Stato, che concedeva le frequenze, e i canali televisivi, che in cambio delle frequenze gratuite si impegnavano a investire pesantemente nella creazione della produzione audiovisiva nazionale. Ancora oggi, via digitale terrestre, i loro programmi raggiungono ancora la maggioranza dei francesi. Ma tutte le cose, anche le buone, hanno una fine. Questo modello virtuoso sta esalando purtroppo il suo ultimo respiro”.
Prendendo dunque come spunto la vicenda francese, ci si chiede oggi se ha un senso iniziare a riflettere su questa questione anche in Italia, dove il digitale terrestre ha storicamente costituito la piattaforma privilegiata, identificandosi per molto tempo con la televisione tout court.
Allo stato attuale, secondo un recente rapporto della società ITMedia Consulting (Il mercato televisivo in Italia: 2018-20. L’effetto Netflix), il digitale terrestre è tuttora la prima e principale modalità di accesso alla televisione per il 54% delle famiglie.
Il mercato del digitale terrestre è inoltre molto attivo e dinamico, secondo Confindustria Radio e Televisioni alla fine del 2018 erano presenti 129 canali televisivi distribuiti a livello nazionale (oltre alla miriade di canali locali), 15 dei quali trasmessi in alta definizione. Nuovi canali vengono ancora lanciati e operatori come Mediaset, Discovery, Sky e Viacom oltre ad acquisirne di nuovi, hanno investito somme rilevanti per rilevarne di già presenti, con le molto appetibili LCN che si portano in dote, cioè in pratica il posto assegnato loro sul telecomando. A ciò si aggiunga il fatto che il mercato pubblicitario dei canali nativi digitali terrestri è l’unico segmento, insieme a internet, che è cresciuto nel corso degli ultimi anni.
Ma se questi sono gli asset che fanno propendere per una sostanziale preminenza dell’offerta gratuita in chiaro, d’altra parte alcuni segnali in forte controtendenza cominciano a manifestarsi.
Sempre secondo lo stesso rapporto ITMedia Consulting, dopo aver raggiunto, nel 2015, il suo massimo livello di penetrazione con oltre il 70% di utenti unici, la televisione digitale terrestre continua a subire una costante significativa riduzione in conseguenza alla crescente competizione delle altre piattaforme, prima fra tutte la broadband TV.
Ma ancora più impressionante in tal senso, è il dato prospettico emergente dallo studio della stessa società. In appena 2 anni (fine 2020) la Broadband TV, a seguito della crescente popolarità presso gli italiani delle offerte di video on demand, come Netflix, Amazon Prime Video e altri (Disney, Sky Now, ecc.) sottrarrà quote sempre più ampie alla piattaforma DTT, sorpassando il satellite e arrivando ormai a ridosso della stessa DTT, contemporaneamente a un ripiego della stessa televisione gratuita in chiaro rispetto alla pay TV, dove oltre il 60% degli abbonati saranno broadband.
Tutto questo dovrebbe cominciare a far riflettere anche in Italia sulla questione posta dal presidente dell’Arcep in Francia, anche in relazione a un altro fenomeno, passato finora un po’ sotto silenzio nel dibattito pubblico e che riguarda anch’esso il tema delle frequenze televisive.
In Italia, come nel resto d’Europa, è previsto entro il 2022 il passaggio delle trasmissioni terrestri dal DVB-T al DVB-T2, cioè la tecnologia di trasmissione televisiva più evoluta rispetto all’attuale, anche come conseguenza della cessione della banda 700 alle telcos per usi 5G. In particolare, grazie all’adozione del protocollo di compressione HEVC (High Efficiency Video Coding) che consente migliori prestazioni nella trasmissione dei segnali in alta definizione, si potrà gestire con un unico MUX fino a 5 canali in Full HD (1080p) o 11 in HD (720p o 1080 i).
Tutto ciò consentirebbe alle tv di continuare a trasmettere i propri canali, molti dei quali anche in HD, con le frequenze rimaste, pur rinunciando alla banda 700. A questo scopo da gennaio 2017 è obbligatorio che ogni Tv sia dotato anche di HEVC, che però consente le massime prestazioni nelle trasmissioni di segnali in alta definizione solo se usato con tecnologia a 10 bit , mentre una parte dei modelli in commercio utilizza gli 8 bit. Se per il 2022 i broadcaster opteranno per i 10 bit, chi ha un Televisore connesso con HEVC a 8 bit potrebbe non vedere alcuni canali e quindi di nuovo si renderà necessario l’acquisto di un decoder.
Ma aldilà di questa problematica specifica (e peraltro non certo irrilevante) la domanda che sorge spontanea è che senso ha realizzare un cambiamento così radicale entro 3 anni, con impatti pesanti anche sugli utenti/telespettatori, su una piattaforma che potrebbe avere i giorni contati?
La risposta dipende naturalmente molto dalla data da mettere come deadline per lo switch-off televisivo terrestre, quel che è certo è che una riflessione pubblica su questa tema finora non c’è stata e sarebbe auspicabile che avvenisse, e in tempi rapidi.
Articolo pubblicato su Start Magazine n.2/2019