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Povertà lavorativa, cos’è e perché il legislatore dovrebbe intervenire

Coldiretti Poveri Povertà Lavorativa

La povertà lavorativa riguarda il 64,5% degli addetti negli alberghi e ristoranti contro meno del 5% nel settore finanziario

Avere un lavoro non sempre basta per evitare di cadere in povertà, e questo non è vero solo in Italia. Nel nostro Paese, però, il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato che negli altri Stati europei. Secondo l’Eurostat, nel 2019, l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%.

La povertà lavorativa incide non solo sul benessere corrente del lavoratore italiano ma mette a rischio anche la sua pensione, che è legata ai contributi versati, e l’intero sistema pensionistico, ove la contribuzione di 23 milioni di lavoratori sostiene 16 milioni di pensionati. Per questo l’ultimo rapporto dell’INPS vi ha dedicato ampio spazio.

Nel dibattito pubblico, la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti. In realtà, essa è il risultato di un processo che va oltre il salario e riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno) e la composizione familiare (e in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo), oltre che l’azione redistributiva dello Stato.

Data l’importanza del contesto familiare nel determinare lo stato di povertà lavorativa, la Relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, presentata il 18 gennaio scorso dal Ministro del Lavoro, definisce povero il lavoratore che ha un reddito disponibile equivalente inferiore al 60% di quello mediano, a prescindere dal livello del salario individuale percepito.

In base a questa definizione, la percentuale di lavoratori poveri, nella fascia d’età 18-64 anni, escludendo chi nell’anno è sempre disoccupato o inattivo o per cui il lavoro non è lo status prevalente (come è il caso degli studenti con lavori saltuari), è notevolmente aumentata nel tempo. Sulla base dei dati EU SILC, tra il 2006 e il 2017, la quota di poveri “familiari” è passata dal 10,3 al 13,2%. Rileva che, anche se valutati su base familiare, i rischi di povertà lavorativa sono strettamente collegati alla forma del contratto di lavoro. Infatti, fra chi lavora prevalentemente come dipendente, l’incidenza è del 12,1%, mentre sale al 17,1% fra chi è in prevalenza autonomo (cfr. Tabella b 2.1). Inoltre, la rilevanza dei tempi di lavoro risulta evidente dal fatto che fra chi lavora un intero anno a tempo parziale l’incidenza della povertà lavorativa è ancora maggiore, al 19,4%, e in generale tale incidenza cresce al diminuire dei mesi lavorati.

La composizione familiare ai fini della valutazione della povertà lavorativa determina un “paradosso di genere” per cui le donne lavoratrici, che più frequentemente vivono in nuclei con più di un percettore di reddito, risultano meno esposte al rischio di in-work poverty rispetto agli uomini sebbene, come noto, affrontino rischi maggiori nel mercato del lavoro in termini di opportunità di impiego e di guadagno. Sulla base dei dati, nel 2017, il rischio di povertà lavorativa era pari, rispettivamente, al 14,2% fra gli uomini e all’11,8% fra le donne.

A differenza di quella familiare, la povertà lavorativa individuale dipende unicamente dagli esiti nel mercato del lavoro. Coerentemente col ben noto fenomeno del divario retributivo di genere, in base al reddito da lavoro annuo netto, la quota di lavoratori poveri, ovvero coloro con una retribuzione individuale inferiore al 60% della mediana, nel 2017, era pari al 16,5% fra gli uomini e al 27,8% fra le donne.

Inoltre, laddove non si consideri l’effetto compensativo svolto dai redditi familiari, la povertà risulta elevatissima, al 53,5%, fra chi nell’anno lavora prevalentemente a tempo parziale. Infine, oltre che dai tempi di lavoro, il rischio di bassa retribuzione è, come atteso, strettamente correlato al numero di mesi lavorati. Sulla base dei dati, per chi è occupato continuativamente nell’anno, tale rischio è pari al 20% (un valore comunque molto elevato) e sale al 75% fra chi lavora solo 6 mesi. Analogamente, è intorno al 14% fra chi lavora tutto l’anno con contratto a tempo pieno, e sale a oltre il 40% fra chi trascorre almeno 7 mesi con contratti a tempo parziale.

Da un’analisi di regressione su dati LOSAI/INPS, che consentono di controllare per le caratteristiche degli individui e del datore, emerge che, dopo le forme contrattuali, il fattore che maggiormente spiega i differenziali nel rischio di bassa retribuzione è il settore produttivo. Guardando alle retribuzioni annuali, ad esempio, sono poveri il 64,5% degli addetti negli alberghi e ristoranti contro meno del 5% nel settore finanziario e tali divari persistono anche se si considerano i soli lavoratori a tempo pieno.

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