skip to Main Content

Ancora non è passato l’inverno della politica

Manovra

Con la fine dei partiti politici, in Italia si sono avvicendate “storie” politiche, narrazioni, brevi illusioni che ci hanno portato alla realtà attuale. L’intervento di Marco Follini per Start Magazine

La politica italiana sta attraversando da molti anni ormai l’inverno del suo scontento. Quell’inverno ce lo siamo raccontati a lungo come un passaggio dalla prima alla seconda e poi alla terza repubblica. Ma non è così. Non perché la prima esista ancora. Ma perché le altre due non sono mai esistite. E dunque il nostro scontento è solo una frontiera che non abbiamo mai del tutto attraversato. O meglio, che abbiamo attraversato affacciandoci verso il vuoto. Dove non c’era niente di quello che stavamo cercando.

Le istituzioni, in larga misura, sono rimaste quelle -a dispetto della nostra collettiva retorica. I costumi sono cambiati più nell’apparenza che nella realtà. Le tecniche politiche si ripetono sotto mentite spoglie. L’unica cosa che si è davvero modificata è stata la fine dei partiti. Come se appunto della prima repubblica fosse rimasto l’involucro e avessimo perso invece l’anima.

I partiti, intendiamoci, non erano il paradiso che oggi ci viene di raccontare. Erano antiquati. Erano ingombranti. Erano, alla fine, un po’ atrofizzati. Erano i surrogati di uno Stato che andavamo cercando senza troppa fortuna. Ma erano anche grandi scuole di convivenza. Lì dentro si è formata la nostra collettiva coscienza politica. Lì abbiamo imparato ad ampliare la sfera dei diritti e della cittadinanza. Lì abbiamo cominciato a ragionare su come un paese potesse crescere, diventare più equo, rendersi democraticamente contendibile. Erano delle grandi scuole. Cattedre popolari in cui i vecchi democristiani spiegavano ai loro elettori che i comunisti non dovevano, né potevano essere messi al bando. In cui i vecchi comunisti spiegavano che non era il caso di fare la rivoluzione con le armi. In cui perfino i vecchi fascisti tenevano in qualche modo a bada le pulsioni nostalgiche e manesche dei loro militanti.

Venne poi -siamo negli anni settanta- la critica alla “partitocrazia”. E la denuncia di errori e malefatte, che alla fine hanno fatto sì che quella stagione tramontasse senza né troppa gloria né (quasi) alcun rimpianto. Di lì in poi avremmo finalmente raggiunto le porte del paradiso di una democrazia compiuta, normale, di stampo europeo. Era il traguardo che ci eravamo prefissati, e ci sentivamo a un passo. E invece, poi, quel traguardo si è rivelato maledettamente illusorio.

I partiti avevano cambiato la nostra idea dello spazio e del tempo. Avevano dilatato lo spazio della nostra convivenza e allungato il tempo della nostra costruzione politica. La loro scomparsa, il vuoto non riempito più da nulla, ci ha riconsegnato allo spazio e al tempo di prima. Uno spazio stretto, un tempo concitato. L’estrema difficoltà a stare insieme rispettandosi a vicenda. E l’incapacità di mettere in campo progetti muniti di un minimo di respiro.

Finiti i partiti, sono cominciate le “storie”. Una serie di narrazioni affrettate e non troppo vere, che ci trasciniamo appresso da una trentina d’anni a questa parte. Illusioni che generano il fenomeno dell’illusionismo di potere. Demagogie di ogni sorta. E un culto miracolistico della leadership politica che ci fa trovare l’indomani, con una sorta di canonica e disperante regolarità, alle prese con una inevitabile delusione.

Le rilevazioni sull’ultimo voto (quello per le europee) segnalano che sette elettori su dieci hanno cambiato le loro scelte negli ultimi cinque anni. Volendo essere ottimisti, molto ottimisti, possiamo considerarlo come il segno di un popolo che vota più consapevolmente, senza essere prigioniero di un pregiudizio. Ma è più probabile che questo continuo girovagare dei votanti, che un giorno incoronano Berlusconi e poi Renzi e poi Grillo e poi Salvini, e il giorno dopo immancabilmente finiscono per ravvedersi, sia il segno di quel collettivo “scontento” che si diceva prima.

Ora, a nessuno è chiaro come tutto questo finirà. Se intorno a un centrodestra a trazione leghista, molto destra e niente centro, si potrà costruire un sistema di governo. Se il mondo grillino avrà un’evoluzione, e quale. Se il Pd ultima versione, quella di Zingaretti, tornerà in qualche modo al centro della scena politica, e come. Se mai si ricostruirà una forza centrista, di ispirazione cristiana o liberal-democratica. E via dicendo. Nulla di tutto questo è chiaro, nulla è prevedibile.  Ma è ovvio che perché capiti qualcosa, perché si esca dall’impasse, occorre cambiare registro. Con tre punti fermi, a mio giudizio.

Il primo punto è la fine delle monarchie. Non si esce dalla difficoltà incoronando un sovrano. Se ne esce, se ne può uscire, solo se si ripristina un assetto, diciamo così, repubblicano. Un equilibrio pluralistico di forze e di poteri che eviti l’illusione che delegando ogni cosa al capo di turno le cose magicamente si risolvano.

Il secondo punto è la fine del “nuovismo”. Non ci ha portato molta fortuna l’idea che la politica sia il campo dell’improvvisazione, della continua invenzione di cose, della rottura di storiche continuità ideali. Ed è arrivato il momento di dire che, sì, l’Italia ha un grande bisogno di innovazione. Ma nessuna novità si produce se prima non matura una inedita forma di coesione tra di noi, italiani tropo enfaticamente opposti gli uni agli altri.

Il terzo punto è la fine, o almeno la ragionevole riduzione, di quel grado estremo di demagogia che ha ridotto il nostro discorso pubblico a una lunga sequela di promesse senza nessuna possibilità di realizzare le cose, a una sfilza infinita di argomenti e parole d’ordine recitati con lingua biforcuta, tanto per accalappiare un consenso elettorale quanto mai volatile. Che il giorno dopo, inevitabilmente, si rivela come un grande imbroglio.

Certo, oggi c’è da fare i conti con un contesto globale che non è più quello in mezzo a cui molti di noi abbiamo avuto la fortuna di crescere. Il miracolo del dopoguerra e i cosiddetti “trenta gloriosi”, quegli anni in cui l’Europa ha tratto dai suoi errori e dalle sue macerie la spinta per proporsi il traguardo forse più avanzato della sua stessa civiltà, tutto questo è lontano -almeno oggi- dalla nostra portata. La quadratura del cerchio, come la chiamava Dahrendorf, quella peculiare sintesi che ci consentì a suo tempo di mettere insieme spinta economica, equità sociale e libertà politica in modi assolutamente impensabili fino ad allora, ci appare oggi come una sorta di improbabile miraggio. Nel frattempo, l’Europa e l’intero Occidente appaiono come un luogo di declino, e si affaccia all’orizzonte il secolo asiatico. Vincono, anche vicino a noi, forme di democrazia illiberale -un vero e proprio ossimoro. Le disuguaglianze si allargano a macchia d’olio, fin dentro le mura di casa nostra.

La cronaca di questo tempo, mano a mano che si fa storia, induce allo sconforto. E il fatto che un po’ dappertutto stia vincendo il populismo -da Trump alla Brexit fino a questa Italia che ascolta quasi ammirata e ospita Steve Bannon- ci deve far riflettere sulla estrema difficoltà del passaggio che stiamo attraversando.

Ci deve far meditare proprio il fatto che paradossalmente proprio noi finiamo con l’essere la trincea più avanzata di quel movimento. Ma anche il luogo in cui quella illusione può seminare più equivoci e più veleni. Mentre un ceto di governo improvvisato posa a gladiatore verso l’Europa e annuncia trionfante di avere abolito la povertà, occorre che la politica riprenda un contatto con la vita delle persone. Non illudendole su cose che non esistono, ma cercando di accompagnale lungo le difficoltà delle loro vite.

A un anno ormai dal varo di questo governo si dovrebbe riconoscere che quei due punti forti della sua agenda -quota 100 e reddito di cittadinanza- ci pongono in conflitto non tanto con le istituzioni europee ma con quel vasto mondo di investitori sparsi che alla fine fa la differenza tra la credibilità e l’autorevolezza di un paese e il suo progressivo scivolamento verso una deriva fatta di sfiducia e di marginalità.

Tanto più dobbiamo calibrare le nostre scelte politiche. Renderci conto che un passaggio così impegnativo non lo si può compiere guidati solo dalla bussola dei nostri malumori e delle nostre volatili emozioni. Occorre la consapevolezza del passaggio storico che stiamo attraversando. E occorre un’onestà intellettuale diffusa, tra i chierici e i fedeli, chiamiamoli così, intorno al modo più appropriato di attraversare questo passaggio.

Altre volte, ce l’abbiamo fatta. Per farcela ancora, occorre quello spirito.

Articolo pubblicato su Start Magazine n.2/2019

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Back To Top