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Ecco come potrebbe cambiare l’ANVUR con la riforma del governo

Novità dal fronte ANVUR. L’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca — organismo pubblico incaricato di valutare la qualità di atenei e ricerca in Italia — con il governo Meloni si prepara a cambiare pelle. Ma non tutte le metamorfosi sono innocue: l’Agenzia rischia di celare sotto nuove squame politicizzate e d’ispirazione internazionale, un veleno per l’autonomia del sistema universitario

Il nuovo regolamento di ANVUR passato in esame preliminare l’11 settembre 2025 dal Consiglio dei Ministri e in discussione parlamentare dal 6 ottobre è stato presentato come un passo avanti verso un’ANVUR “più indipendente, autonoma e internazionale”. Ma è davvero così?

COSA CAMBIA CON IL NUOVO REGOLAMENTO ANVUR 

Il nuovo regolamento espande il raggio d’azione dell’ANVUR: rientrano ora sotto il suo ombrello anche le strutture dell’AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica) ovvero le Accademie di belle arti, i Conservatori e gli istituti di danza e teatro; gli enti di ricerca privati finanziati con fondi pubblici (come lo Human Technopole o l’Istituto Italiano di Tecnologia). Al tempo stesso si apre alla possibilità di operare anche a livello internazionale. In parallelo, si riforma la governance interna: cambia la procedura di nomina del Presidente e si riduce il numero dei membri sia del Consiglio direttivo che del Comitato consultivo. L’ultimo punto, quello più enfatizzato, è l’allineamento di didattica e ricerca agli standard europei (ENQA).

IL MINISTERO STRINGE IL CONTROLLO SULLE NOMINE INTERNE ALL’AGENZIA 

Una delle novità principali del nuovo assetto riguarda il meccanismo di nomina del Presidente dell’ANVUR, che passerebbe sotto un controllo più diretto del Ministero dell’Università. La nuova procedura prevede che una commissione di esperti scelti dal Ministero proponga una rosa di nomi su cui il Parlamento esprime un parere non vincolante, mentre la nomina finale spetta al Presidente della Repubblica. Un cambiamento netto rispetto al passato, quando il presidente era eletto internamente dal Consiglio direttivo con una maggioranza qualificata. Un meccanismo che fungeva da bilanciamento interno. Qui la nuova procedura si traduce di fatto in un accentramento della governance: una configurazione che potrebbe mettere pericolosamente atenei e ricerca “al guinzaglio” del governo di turno. 

MENO VOCI, MENO DIBATTITO: IL TAGLIO A CONSIGLIO E COMITATO ANVUR 

Il Consiglio direttivo si riduce da 7 a 5 membri (4 più il Presidente) mentre il Comitato consultivo, che rappresenta la comunità scientifica e accademica, passa da 19 a 8 componenti. Un taglio dei membri che si traduce quasi sempre in più verticalizzazione e meno rappresentanza. Insomma, una scelta presentata come snellimento che rischia invece di compromettere il pluralismo interno. Ricordiamo che un’operazione simile è stata fatta con la riforma sul taglio dei parlamentari e non ha portato buoni risultati. Anche lì, meno voci ha significato e significa meno confronto.

ANVUR E IL GOVERNO “FANNO GLI INVALSI” ALL’UNIVERSITÀ

Il punto forse più critico della riforma riguarda l’ingresso di ANVUR nei contenuti della didattica universitaria. Come sottolineato dalla Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC) CGIL nel suo commento al nuovo regolamento, l’Agenzia potrà valutare non solo organizzazione e ricerca, ma anche cosa e come si insegna, fino all’apprendimento degli studenti, con un modello che ricorda i test Invalsi — le prove somministrate nelle scuole per misurare l’apprendimento e confrontare i risultati a livello nazionale. “Questo governo, con un decreto ministeriale rivela l’intenzione di mettere il naso sulla didattica: un rischio di sistema per l’autonomia del sistema universitario nazionale e per la libertà della docenza!”

Insomma, dietro la promessa di “qualità” si profila invece un cambiamento strutturale che rischia di standardizzare l’università, trasformandola in un’azienda guidata da logiche di produttività e mercato. Una deriva aziendalista e gerarchica, a dire della FLC CGIL e molti docenti, dove “l’università pubblica smette di essere luogo di sapere critico e cooperativo, per diventare uno strumento piegato alla performance, al controllo politico e alla competizione tra istituzioni.” Il timore è che le valutazioni di ANVUR si trasformino in un vero e proprio strumento politico, utilizzato per orientare le risorse, chiudere corsi, influenzare carriere, premiando chi si allinea alle direttive e penalizzando chi invece si oppone.

UNIVERSITÀ TELEMATICHE. SOLO IL 9% È PROMOSSO DA ANVUR

Un esempio concreto di questa dinamica si può già osservare nel settore delle università telematiche dove, nonostante il boom di iscritti, “solo il 9% degli atenei online è stato promosso da ANVUR senza riserve”. Il recente referto della Corte dei Conti evidenzia come l’espansione della domanda studentesca non sia stata accompagnata da un riconoscimento proporzionale nella valutazione, lasciando spazio a interrogativi sia su possibili pregiudizi sistemici che sull’adeguatezza dei criteri adottati. Insomma, se la riforma ANVUR proseguirà indisturbata il suo corso legislativo, sarà anche chi è al timone in parlamento a decidere le sorti delle università beniamine della Lega e Fdl, frequentate da esponenti del PD e mal tollerate da Forza Italia.

L’OMOLOGO (IMPRONUNCIABILE E DESTITUITO) FRANCESE: L’HCERES

In Francia, l’equivalente dell’ANVUR — l’HCERES — è stato recentemente abolito dall’Assemblea Nazionale dopo anni di critiche, in particolare da parte delle scienze sociali. La sua valutazione standardizzata penalizzava sistematicamente i dipartimenti con studenti svantaggiati e le aree umanistiche, favorendo logiche quantitative e internazionaliste poco adatte a questi ambiti. Come ha osservato la sociologa Clémentine Gozlan, “l’oggettività è in parte una finzione: i punti di vista assumono significato in un particolare contesto istituzionale e politico. Il lavoro che resta da fare non è quello di mascherarsi da una presunta neutralità, ma piuttosto di spiegare gli obiettivi delle valutazioni e rendere più trasparente il processo di produzione delle opinioni.” La lezione francese è chiara: la valutazione non può essere uno strumento di omologazione. Deve invece servire da bussola per leggere, comprendere e valorizzare la complessità dell’università pubblica senza piegarla a logiche estranee alla sua missione.

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