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“La propaganda russa è in mezzo a noi e non (sempre) ce ne accorgiamo”. Parla l’on. Onori (Azione)

La disinformazione russa nei mezzi d’informazione e nei partiti è una realtà. Il lavoro della Commissione Affari Esteri e Comunitari di Montecitorio per aprire un tavolo e aumentare la consapevolezza. L’intervista a Federica Onori, deputata di Azione e segretario della Commissione Affari Esteri e Comunitari di Montecitorio

Il concerto, poi annullato, di Valery Gergiev alla Reggia di Caserta ha avuto il merito di riaccendere l’attenzione sul ruolo della cultura nelle strategie di influenza e disinformazione, come strumento di soft power al servizio del regime di Putin. Ne è convinta la deputata di Azione, Federica Onori, segretario della Commissione Affari Esteri e Comunitari di Montecitorio, che chiede un confronto aperto fra tutte le parti politiche per riflettere su come difendere la libertà culturale da ogni forma di manipolazione.

La mancata esibizione di Gergiev è ormai acqua passata, ma è solo la punta dell’iceberg, ben visibile, di una propaganda molto ramificata e pervasiva, talvolta difficile da individuare. Che ne pensa?

Appena archiviato il caso Gergiev, c’è stato un nuovo episodio che si è imposto alla nostra attenzione: il 5 agosto a Bologna era previsto, poi giustamente è saltato, un concerto del pianista Romanovsky, noto per essersi esibito tra le rovine di Mariupol in uno degli atti più evidenti di propaganda russa. È la dimostrazione che non si tratta di casi isolati, ma di una strategia sistemica che usa la cultura come strumento di legittimazione politica.

La mobilitazione politica e sociale in questi casi è servita, ma è sufficiente?

Quello di Gergiev non è il primo dei casi in cui la mobilitazione della cittadinanza e della politica hanno portato a risultati concreti, quindi è di certo imprescindibile. Ma è necessario anche prevenire questo tipo di avvenimenti, in particolare nella loro diffusione capillare a livello locale.  Tempo fa presentai un’interrogazione al ministro dell’Interno in seguito alla notizia che tra Gorizia e Nova Gorica ci sarebbero state delle proiezioni dei documentari di Russia Today (RT), sanzionati dall’Unione europea, la cui riproduzione è vietata. Qualche volta succede in luoghi privati, per il tramite di associazioni locali che si definiscono “portatrici di verità”, ma talvolta si verifica anche in luoghi pubblici, come è successo in una biblioteca di Genova. Abbiamo chiesto al ministro di dare istruzioni chiare e garantire il monitoraggio di questo tipo di iniziative a livello locale, perché spesso gli amministratori non sono a conoscenza dei divieti. Di fronte a tutto questo, purtroppo, le risposte del governo sono state finora deboli, episodiche, e prive di una strategia strutturale.

Come vi state muovendo?

In questi mesi abbiamo lavorato proprio per rafforzare la consapevolezza politica e istituzionale attorno a questo fenomeno. Abbiamo promosso diversi momenti di confronto, in costante collaborazione con le Istituzioni europee, le autorità competenti e il mondo della ricerca. Tra questi, la presentazione, anche alla Camera dei deputati, del terzo report del Servizio Europeo di Azione Esterna sulle FIMI, le Foreign Information Manipulation and Interference. Il documento ha evidenziato l’esistenza di una vera e propria gerarchia della disinformazione: dai canali istituzionali ufficiali, passando per account in “zona grigia” (apparentemente indipendenti ma in realtà riconducibili all’ecosistema del Cremlino) fino a una rete di influencer, opinion leader e attivisti cooptati o manipolati per amplificare narrazioni favorevoli alla Russia.

Talvolta però la propaganda è ben visibile. La leggiamo, ascoltiamo e vediamo ogni giorno su alcuni organi di stampa e in alcuni talk show televisivi. Cosa si può fare per arginarla senza essere accusati di voler imbavagliare la libertà di opinione?

Il primo baluardo contro la propaganda che si infiltra nei media resta un giornalismo libero, ma anche pienamente consapevole della propria funzione democratica. In un passaggio particolarmente significativo, il Presidente della Repubblica ha recentemente richiamato il ruolo essenziale dell’informazione come “cane da guardia” contro le derive del potere, così come riconosciuto dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. Un monito quanto mai attuale, soprattutto in una fase storica in cui alcuni spazi dell’informazione, in particolare i talk show televisivi, ospitano regolarmente figure che veicolano narrazioni distorte, spesso in sintonia – diretta o indiretta – con gli apparati comunicativi di regimi autoritari. Garantire il pluralismo non può significare offrire legittimazione a chi sistematicamente nega fatti documentati o semina dubbi su basi esclusivamente ideologiche. Lo abbiamo visto chiaramente durante la pandemia, quando in diversi contesti mediatici le opinioni di scienziati e accademici venivano poste sullo stesso piano di quelle di soggetti privi di qualsiasi credibilità o competenza. E non è un caso se molti di quei gruppi e canali social – dalle pagine Facebook ai gruppi Telegram – inizialmente nati per diffondere teorie complottiste sul COVID-19 e messaggi “No Vax”, si siano rapidamente riconvertiti in spazi apertamente filorussi, con contenuti contro l’Ucraina, la NATO e l’Occidente in generale. Si tratta spesso dello stesso ecosistema disinformativo, che cambia bersaglio ma mantiene struttura e dinamiche identiche: sfiducia sistemica, delegittimazione delle istituzioni, rifiuto del metodo scientifico, risonanza algoritmica.

Cosa serve per fronteggiare questo ecosistema disinformativo di cui parla?

E’ indispensabile che le redazioni adottino criteri editoriali solidi e trasparenti, vigilando sui legami, sul profilo e sulla credibilità degli ospiti invitati. Al tempo stesso, la risposta più efficace e duratura alla disinformazione non può limitarsi a forme di esclusione o sanzione: deve passare per un investimento serio e strutturale nell’informazione di qualità e nell’educazione civica.

Secondo lei nell’opinione pubblica c’è sufficiente coscienza delle infiltrazioni propagandistiche provenienti dall’esterno del nostro Paese e dei relativi pericoli?

No, purtroppo non c’è ancora sufficiente consapevolezza nell’opinione pubblica riguardo alle infiltrazioni propagandistiche straniere, in particolare quelle di matrice russa. Questo accade perché spesso la propaganda non si presenta in modo esplicito, ma si mimetizza dentro contenuti che appaiono legittimi: talk show, interviste, post virali, o presunti “approfondimenti” alternativi. Inoltre, l’idea stessa che l’informazione possa essere usata come arma è ancora sottovalutata. In un contesto di sfiducia generalizzata verso i media e le istituzioni, queste narrative trovano terreno fertile, perché si insinuano in paure reali con risposte semplicistiche e polarizzanti.

E nei partiti?

Anche all’interno dei partiti politici, la consapevolezza del rischio rappresentato dalle infiltrazioni propagandistiche esterne è ancora parziale. In alcuni casi prevale una sottovalutazione del fenomeno; in altri, una forma di opportunismo che porta a sfruttare queste narrative per meri fini identitari o polemici, scambiandole per semplici “voci fuori dal coro” o “opinioni alternative”. Ma quando contenuti prodotti da media ufficialmente sanzionati dall’Unione europea trovano spazio nei nostri territori – spesso attraverso eventi patrocinati o ospitati da enti pubblici – non siamo più di fronte a una questione di pluralismo, bensì a un problema di sicurezza informativa e di integrità democratica.

Cosa la preoccupa di più?

La zona grigia che sta emergendo: è questa la cosa sempre più preoccupante. Realtà associative che si presentano come iniziative esclusivamente culturali, ma che di fatto rilanciano narrazioni allineate agli interessi geopolitici di potenze straniere ostili. Talvolta si tratta di attività ambigue, costruite con attenzione per non oltrepassare formalmente i limiti della legalità, ma che operano in quella soglia opaca dove la diplomazia culturale si trasforma in operazione di influenza. Riconoscere questa ambivalenza è il primo passo per affrontarla.

In che modo?

A questa sfida proveremo a rispondere, con i colleghi che sono più sensibili al tema, dando vita all’intergruppo parlamentare “Democrazia, informazione e diritti umani”: una piattaforma bicamerale e trasversale, che nasce con l’intento di colmare un vuoto di consapevolezza, sia a livello istituzionale che nel dibattito pubblico. Il nostro obiettivo è duplice: da un lato, portare questi temi al centro dell’agenda parlamentare; dall’altro, costruire un canale stabile di dialogo con il mondo della ricerca, della diplomazia, dell’università e della società civile. Solo attraverso questa sinergia possiamo sperare di sviluppare strumenti concreti – legislativi, culturali e strategici – per rafforzare la resilienza delle nostre democrazie e difendere il dibattito pubblico da condizionamenti esterni. La posta in gioco è alta: si tratta della nostra capacità, come Paese, di rimanere saldamente ancorati a un’idea di libertà informativa che non sia ingenua né permeabile alla manipolazione.

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