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Migranti, porti e Ong. Qualche precisazione sui confini marittimi italiani

Porti

L’approfondimento di Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa dello IAI, per Affarinternazionali 

All’11 luglio, i migranti sbarcati in Italia nel corso del 2019 ammontano a 3.165. Nello stesso periodo del 2017, ne erano arrivati attraverso il Mediterraneo 85.211: la riduzione è quindi del 96%. E’ da questi numeri che si può comprendere la ratio politica delle decisioni governative sul caso della Sea Watch e sull’uso delle forze armate e di sicurezza nel controllo dei confini marittimi italiani.

Rispetto ai 181.436 migranti sbarcati in Italia nel 2016, il calo era iniziato già nel 2017 durante il governo presieduto da Paolo Gentiloni (119.269 arrivi, meno 34% su base annuale), ed è poi proseguito ed accelerato nel 2018 con l’arrivo a giugno del nuovo esecutivo di Giuseppe Conte (23.370 arrivi, meno 86% rispetto al 2016). Si tratta di un trend evidente, reale e significativo.

Tanto più significativo se si considera che nel quadriennio 2013-2016 sono stati 608.000 i migranti arrivati in Italia attraverso il Mediterraneo, con una media di oltre 150.00 l’anno.

PORTI CHIUSI: MENO SBARCHI IN ITALIA E MENO VITTIME IN MARE

Quali le cause di tale drastica riduzione? Certo non sono venute meno le ragioni profonde dei flussi migratori: non si è arrestato il cambiamento climatico, con i relativi processi di desertificazione; non sono improvvisamente terminati conflitti e crisi in Africa e Medio Oriente; né è drasticamente migliorata la situazione socio-economica nei Paesi d’origine dei migranti quanto a povertà, diseguaglianze sociali, e piramide demografica.

L’unica variabile rilevante che è mutata, e quindi la causa determinate del crollo degli sbarchi, è l’atteggiamento del Paese d’approdo: l’Italia. Il che dimostra che i flussi migratori non sono inevitabili, ma possono essere controllati e ridotti se si ha la volontà politica di farlo.

Nel 2017 l’allora titolare degli Interni Marco Minniti poneva dei limiti alle operazioni di ricerca e soccorso (Search and rescue – Sar) nel Mediterraneo da parte di navi italiane e delle Ong, anche con un apposito Codice di condotta, e stringeva accordi con gli interlocutori libici e nigerini per filtrare e rallentare i flussi migratori.

Dal 2018, il suo successore Matteo Salvini ha adottato una linea più dura di controllo dei confini basata principalmente sulla chiusura dei porti a tutte le navi che trasportassero migranti. Una linea che ha raggiunto i risultati voluti quanto a numero di sbarchi, sia riducendoli direttamente, sia cambiando il rapporto rischi/benefici nell’approccio di trafficanti e migranti stessi che, di fronte alla crescente difficoltà di arrivare in Italia, hanno ridotto il numero di partenze o scelto altre destinazioni. Non a caso nel 2018 sono morti nel Mediterraneo centrale circa 2.000 migranti, a fronte degli oltre 4.700 del 2016: una riduzione del 50% delle vittime in mare, effetto indiretto anche della chiusura dei porti italiani.

Migranti - Italia - sbarchi

LO SCONTRO POLITICO TRA ONG E GOVERNO

Il caso della Sea Watch è importante perché mette in discussione proprio il contenuto ed il metodo della chiave di volta della riduzione degli sbarchi, ovvero la chiusura dei porti decisa dalle autorità italiane. Il 17 giugno la nave della Ong ha soccorso 52 migranti nelle acque territoriali libiche, precedendo intenzionalmente la guardia costiera di Tripoli che aveva comunicato di aver assunto il coordinamento del soccorso, e si è diretta verso Lampedusa pur sapendo che non avrebbe avuto autorizzazione ad attraccare.

Nelle due settimane che ha atteso al largo dell’isola italiana, la nave battente bandiera olandese avrebbe potuto facilmente raggiungere un porto sicuro maltese, greco, francese o spagnolo, per chiedere di sbarcare i migranti in un altro Paese Ue, ma non lo ha fatto. Invece, ha violato consapevolmente il divieto di sbarco a Lampedusa, forzando il blocco navale imposto dalle autorità italiane con il conseguente scontro fisico con la motovedetta della Guardia di Finanza.

Una serie di azioni che hanno avuto lo scopo politico di affermare il principio che le Ong possono e devono salvare migranti nel Mediterraneo centrale e portarli nel porto sicuro più vicino a loro scelta, a prescindere dalla sovranità delle acque territoriali. Scopo politico opposto a quello del governo italiano, che quindi ha mantenuto il blocco fino al conseguente scontro tra le due navi.

Fermo restando che starà alla magistratura giudicare, ed eventualmente sanzionare, le responsabilità giuridiche dell’incidente, il significato politico del braccio di ferro tra Sea Watch ed il governo è chiaro, e duplice: se i confini e i porti italiani debbano o no essere aperti ai migranti soccorsi in mare dalle Ong, e se questa decisione spetti allo Stato italiano o ad una associazione di privati cittadini.

SE SONO IN GIOCO LEGALITÀ E DEMOCRAZIA

Il braccio di ferro politico investe quindi un fondamento della statualità, quale il controllo dei confini nazionali, in particolare quelli marittimi. Tale controllo è una competenza dello Stato in quanto entità composta da territorio, popolo e autorità politica che governa quel territorio e quel popolo: non compete quindi a organismi internazionali, né a soggetti privati o a organizzazioni non governative.

Se l’azione di un’associazione di privati cittadini, italiani o come in questo caso stranieri, potesse ignorare senza conseguenze le legittime decisioni quanto a controllo dei confini prese da un governo democraticamente eletto dal popolo del Paese, si creerebbe un pericoloso precedente politico, legale e democratico.

Politico, perché si metterebbe in dubbio la legittimità e l’efficacia delle istituzioni dello Stato. Legale, ovviamente fermo restando la valutazione della magistratura sulla normativa italiana, perché si sancirebbe che la legge può essere disapplicata da un gruppo di privati cittadini. E democratico, perché la volontà di pochi individui, per di più stranieri, prevaricherebbe così quella della maggioranza degli elettori italiani che si è espressa nei modi costituzionalmente previsti dalla nostra democrazia parlamentare dando luogo al governo in carica.

La volontà del corpo elettorale di ridurre gli sbarchi di migranti rispetto ai flussi eccezionali del 2013-2016 si è manifestata con forza, chiarezza e costanza negli ultimi anni. Alle elezioni politiche del 2018, i partiti che proponevano una stretta sui flussi migratori, dal Movimento 5 Stelle all’intero centrodestra, hanno raccolto nel complesso oltre il 70% dei voti. Un anno dopo, al momento di eleggere gli europarlamentari italiani, le forze di governo e di opposizione che hanno sostenuto o accettato la linea dei maggiori controlli sui confini e dei porti chiusi nel complesso hanno totalizzato di nuovo oltre due terzi dei consensi, di cui oltre la metà per il partito del ministro dell’Interno che più ha voluto tale politica.

PERCHÉ È FINITA LA MISSIONE UE SOPHIA

Alla luce di tale dato politico va interpretata anche la decisione del governo italiano sull’impiego delle forze armate nell’operazione dell’Unione europea Eunavformed Sophia, comandata dall’Italia sin dal suo lancio nel 2015. La missione era nata con l’obiettivo di contrastare il traffico di migranti, anche tramite l’addestramento della guardia costiera libica, e su questo fronte ha raggiunto risultati positivi conducendo all’arresto di 151 sospetti trafficanti e addestrando 237 ufficiali libici.

Eunavformed ha anche svolto attività Sar soccorrendo in mare circa 45.000 migranti, che sono stati sbarcati tutti in Italia perché così prevedevano gli accordi presi al momento del lancio dell’operazione.

Il punto è che Sophia, come ogni missione militare, non è fine a sé stessa, ma è un mezzo funzionale al raggiungimento degli obiettivi politici dei governi che vi partecipano, di norma fissati in base agli interessi nazionali e all’orientamento del corpo elettorale. Valutando in quest’ottica da un lato l’effetto positivo dei trafficanti arrestati, e quello negativo dei migranti sbarcati in Italia, il governo Conte ha chiesto ai Paesi Ue partecipanti alla missione di istituire un meccanismo permanente per la rotazione degli sbarchi nei rispettivi porti, sulla scia di quanto aveva chiesto – invano – il governo Gentiloni per l’altra missione Ue attiva nel Mediterraneo, Triton (ora Themis). La questione è stata posta esplicitamente e più volte nel 2018-2019, in particolare nelle riunioni tra i ministri degli Esteri e della Difesa, arrivando a minacciare il ritiro dell’Italia da un’operazione non in linea con gli obiettivi politici del nuovo governo.

LA LINEA DEGLI ALTRI PAESI UE

Gli altri Paesi europei hanno risposto picche alle richieste italiane: i migranti soccorsi in mare da Sophia dovevano continuare ad essere sbarcati tutti in Italia. I porti francesi, spagnoli e tedeschi dovevano rimanere chiusi alle navi militari europee che trasportavano migranti salvati da una operazione Ue, anche a costo di porre termine alla missione stessa, la cui componente navale è stata quindi ritirata lo scorso giugno. Una realtà che cozza con alcune critiche provenienti da politici europei alla chiusura dei porti italiani: a quanto sembra, è facile essere aperti con i confini e i porti degli altri. La fine di Sophia è stata una sconfitta per l’Ue e i suoi Stati membri che avrebbero potuto, accettando la proposta italiana, continuare con gli arresti dei trafficanti di esseri umani e condividere ab origine l’onere dell’accoglienza dei migranti salvati in mare, dimostrando così finalmente solidarietà europea ed efficacia nella gestione dei flussi migratori.

In mancanza di tale solidarietà europea, l’Italia ha fatto da sola adottando la politica di maggiori controlli sui confini e dei porti chiusi, che nei primi sei mesi del 2019 ha ridotto del 96% gli sbarchi rispetto allo stesso periodo del 2017. Politica che può essere cambiata dal governo e dal Parlamento italiani, attuale o futuro, in quanto legittima espressione democratica degli elettori, ma non da un’associazione di privati cittadini.

 

Articolo pubblicato su affarinternazionali.it

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