Entro il 2034 nelle nostre scuole ci saranno 1 milione di alunni in meno. La traiettoria segna un trend negativo della scuola italiana entro dieci anni, tra cattedre e plessi scolastici in meno
Dalla relazione tecnica al Dl 90/2025 convertito in legge a fine luglio emerge un dato allarmante. Il provvedimento introduce misure urgenti per rafforzare le università, la ricerca, la sanità e l’istruzione e tra le novità per la scuola, l’estensione della tutela assicurativa per circa 10 milioni di studenti e insegnanti. Ma il documento disegna anche un generale declino di numeri anche per le università. Numeri di cui Valditara parlava già due anni fa durante gli Stati generali della natalità.
NUMERI IN CALO PER ALUNNI E CATTEDRE
Gli studenti dall’infanzia alle superiori scenderanno dagli 8,84 milioni di studenti del 2024 a 8,67 milioni nel 2025. Tra il 2026 e il 2030 caleranno di 90mila unità l’anno, tra il 2031 e il 2034 la riduzione sarà di 100mila all’anno. Complessivamente dai 6,91 milioni di studenti di oggi si passerà a 5,90 milioni nel 2034: la prima volta che la soglia si abbassa al di sotto dei 6 milioni.
Per le università, le stime non sono migliori: -38% di matricole in meno di 15 anni a partire dal 2029/30. All’interno del governo già circolano previsioni che parlano di almeno 100mila cattedre in meno nell’arco di un decennio e su circa 40mila strutture scolastiche, 5mila destinate a svuotarsi.
Già a settembre gli organici caleranno per la prima volta dall’anno scolastico 2020/21 (fino ad allora erano sempre cresciuti o rimasti stabili). Nel complesso si parla di circa 3.800 cattedre in meno, considerando i 5.660 insegnanti in meno (legati alla denatalità) e gli 1.886 nuove cattedre di sostegno come stabilito dall’attuazione della legge n.207 del 30 dicembre 2024.
CALO DEMOGRAFICO
Si tratta di una contrazione strutturale legata al declino demografico che caratterizza l’Italia da oltre un decennio, come emerge ciclicamente dai dati Istat: negli ultimi cinque anni le nascite sono passate dalle 420.084 del 2019 alle 380mila del 2023, nel 2024 si scenderà ancora a circa 370mila.
Per questo trend negativo, secondo la relazione tecnica al Dl 90, ci sarebbero due strade: eventuali flussi migratori di pari entità rispetto al gap demografico o una ripresa della natalità. Quest’ultima non produrrebbe effetti tangibili sulla scuola prima di quattro anni. Secondo i dati Eurostat, nel 2023 nell’Ue sono nati 3,67 milioni di bambini, in calo del 5,4% rispetto all’anno precedente.
L’Italia ha uno dei tassi di fecondità più bassi del continente (1,24 figli per donna), con un’età media al primo parto di 31,8 anni, la più alta in Europa. Il dato italiano rientra tra i più bassi insieme a Malta (1,06), Spagna (1,12) e Lituania (1,18). Al contrario, il paese con il tasso di fecondità più alto è la Bulgaria (1,81) poi Francia (1,66) e Ungheria (1,55). Un declino iniziato già nei primi anni 2000. Il 23% dei nati nel Paese è figlio di madre straniera, un dato in crescita, ma ancora inferiore rispetto ad altri Paesi Ue.
FRASSINETTI: UN’OPPORTUNITA’
Secondo la sottosegretaria Paola Frassinetti la riduzione degli alunni per classe potrebbe essere un’occasione per rinnovare la scuola e innalzare gli standard didattici. In Commissione Cultura alle Camere ha sostenuto che ripensare il dimensionamento scolastico usando i fondi del PNRR e promuovere una didattica più flessibile e personalizzata. In particolare nelle zone caratterizzate da fragilità come aree interne o isole si sono attivate deroghe ai vincoli minimi di alunni per classe e adattare l’offerta educativa alla realtà demografica e offrire maggiore attenzione agli studenti più fragili.
DIFFERENZE TRA SUD E NORD
Secondo un’analisi del Centro studi Orizzonte scuola il calo demografico colpisce in misura maggiore il Sud. Solo nel 2023, Sud e Isole hanno perso 73.800 abitanti, in un quadro che riflette bassa natalità ed emigrazione, con impatti diretti sulla rete scolastica e sulla pianificazione degli organici. Il trend demografico cela anche un altro fenomeno: l’elevata percentuale della disoccupazione femminile e la differenza retributiva rispetto ai colleghi uomini, che contribuisce a creare tra l’altro un clima culturale che non favorisce le donne e disincentiva la maternità.