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Asset russi

Di cosa parliamo quando parliamo di asset russi: l’analisi della prof.ssa Gravina (Fondazione Einaudi)

Si fa un gran parlare degli asset russi congelati in vista del Consiglio europeo di domani, ma di cosa si tratta nel concreto? L’intervista alla prof.ssa Gravina (Fondazione Luigi Einaudi)

I miliardi di euro di asset russi congelati nelle giurisdizioni occidentali sono diventati uno dei nodi più controversi del dibattito europeo sulla guerra in Ucraina. Quanto valgono davvero, quali margini esistono per utilizzarli a sostegno di Kiev e perché dividono così profondamente gli Stati membri dell’Unione? In questa intervista Renata Gravina, ricercatrice e docente di storia dell’Europa orientale presso la Facoltà di Scienze politiche della Sapienza e fellow della Fondazione Luigi Einaudi, analizza numeri, vincoli giuridici e implicazioni politiche del congelamento degli asset russi, chiarendo cosa è realisticamente possibile e quali rischi l’Europa deve evitare.

A quanto ammontano oggi gli asset immobilizzati e che uso se ne potrebbe fare? Potrebbero fornire ossigeno all’Ucraina per due anni tra forniture di armi e riparazioni infrastrutturali?

Le stime operative più plausibili collocano oggi le risorse sovrane e statali russe immobilizzate nelle giurisdizioni occidentali nell’ordine di grandezza di €200–€300 miliardi, a cui si sommano decine di miliardi in beni privati riconducibili a soggetti sanzionati. Gran parte di questo patrimonio non è immediatamente spendibile per vincoli giuridici e per la dispersione geografica degli asset. La letteratura giuridica e di policy individua tre strumenti praticabili: (a) l’impiego dei proventi generati dagli asset congelati; (b) l’istituzione di un fondo internazionale con governance trasparente;
(c) l’emissione di bond garantiti dagli asset immobilizzati.

Con ipotesi prudenziali di rendimento reale, i proventi di un portafoglio da €200–€300 miliardi potrebbero generare alcune decine di miliardi di euro l’anno; combinando questi flussi con emissioni moderate di bond garantiti e finanziamenti pubblici aggiuntivi, è plausibile fornire a Kiev un “ossigeno” finanziario significativo per 12–24 mesi.

Questa possibilità è però condizionata a una definizione chiara del perimetro degli asset, basi legali condivise, governance trasparente e volontà politica dei partner. L’idea di usare risorse immobilizzate anche per la ricostruzione è sostenuta da proposte politiche (anche negli USA), ma richiede procedure giudiziarie e accordi multilaterali per evitare contenziosi e preservare la legittimità internazionale.

Donald Trump ha in effetti proposto di impiegare attivi russi congelati come leva per favorire un accordo di pace e finanziare la ricostruzione, suscitando timori in Europa per il rischio che Washington decidesse unilateralmente la destinazione delle risorse detenute in giurisdizioni europee. I dettagli trapelati hanno alimentato preoccupazioni che una parte dei proventi potesse favorire attori statunitensi o un veicolo di ricostruzione controllato dagli USA, e che trasferimenti finanziari potessero essere collegati a concessioni politiche da parte di Kiev, suscitando critiche per i potenziali effetti sulla sovranità ucraina. La reazione europea ha posto l’accento sulla necessità di soluzioni multilaterali, trasparenti e conformi al diritto internazionale.

Il congelamento è davvero una leva reale sui negoziati per la pace? Che peso hanno nell’economia russa? Cosa e chi colpiscono?

Dal punto di vista storico, la dipendenza economica e finanziaria tra Europa orientale e Russia dopo il crollo sovietico ha creato reti complesse di capitale e proprietà transnazionale; questo retaggio spiega perché il congelamento colpisca non solo lo Stato ma anche élite e infrastrutture economiche radicate in Europa orientale e occidentale.

Il congelamento degli asset russi nelle giurisdizioni occidentali funziona come leva sui negoziati per la pace in modo condizionato e non lineare: sul piano politico e simbolico è potente, ma la sua efficacia dipende da tre condizioni cumulative — una base giuridica solida, una coesione multilaterale e la complementarità con altre leve.

Sul piano economico l’effetto è significativo ma non risolutivo: il congelamento riduce la disponibilità di riserve estere utili a stabilizzare il rublo e finanziare importazioni critiche, aumentando i costi di finanziamento dello Stato; d’altro canto la Russia dispone di strumenti di resilienza che attenuano l’impatto macroeconomico.

Gli effetti distributivi colpiscono su tre livelli: lo Stato, l’élite economica e i soggetti direttamente sanzionati, e attori terzi come banche depositarie e imprese europee esposte. In definitiva, il congelamento è uno strumento reale e utile se inserito in un disegno multilaterale e giuridicamente fondato: non è di per sé una bacchetta magica, ma può contribuire a creare condizioni più favorevoli per negoziati credibili.

Nell’ultimo Consiglio Ue si dovrà decidere sugli asset russi: ma in Ue c’è divisione. Chi sono i maggiori sponsor e i contrari? Cosa aspettarsi?

Dopo il crollo dell’URSS, gli anni Novanta e i primi Duemila hanno favorito una massiccia esteriorizzazione del capitale da parte di élite post-sovietiche, la crescita di reti di proprietà transnazionali e l’integrazione di imprese europee con partner russi; questa eredità spiega perché oggi il blocco degli asset non sia solo un gesto simbolico ma tocchi interessi concreti e radicati in molte economie europee.

I Paesi baltici, la Polonia e altri Stati dell’Europa centrale vedono nel congelamento uno strumento necessario; paesi dell’Europa occidentale come Germania, Francia e Italia sono favorevoli ma insistono su procedure legali e meccanismi multilaterali; Ungheria e altri Stati più cauti hanno sollevato obiezioni per ragioni di sovranità e timori di ritorsioni economiche.

Nell’immediato, al Consiglio ci si deve aspettare una soluzione di compromesso tecnico-giuridico: il congelamento verrà consolidato, mentre si lavorerà a strumenti multilaterali per l’impiego dei proventi.

Non ci sarà una confisca rapida e unilaterale, ma un processo graduale che cerca di conciliare urgenza politica e tutela della legittimità giuridica e finanziaria. Parallelamente, bisogna attendersi tentativi russi di ritorsione economica e ibrida e una crescente complessità operativa per banche depositarie e operatori finanziari coinvolti.

Paesi come Ungheria e Slovacchia sono contrari, e a loro si aggiungono anche Belgio e Francia: perché?

La preoccupazione di Belgio, Francia, Ungheria e Slovacchia non è solo politica ma pratica: gran parte degli asset russi congelati è custodita in Belgio tramite il sistema di deposito centrale (Euroclear). Se chi sosteneva di essere proprietario di quei titoli prima delle sanzioni intentasse una causa, potrebbe chiedere la restituzione dei beni o un risarcimento per il danno subito. La concreta esposizione finanziaria dello Stato dipende da fattori tecnici e contrattuali e non è automatico che un giudice imponga un maxi-rimborso. Se tali condizioni fossero interpretate in modo da far ricadere la responsabilità su soggetti pubblici, l’impatto fiscale e politico per Bruxelles potrebbe essere rilevante; in assenza di tali trasferimenti contrattuali, la responsabilità ricadrebbe primariamente sugli operatori privati coinvolti

Le pretese risarcitorie possono assumere forme diverse: azioni civili, cause contrattuali contro il depositario o ricorsi internazionali. Le controversie già avviate dimostrano che questi rischi non sono teorici.

Perché la Francia chiede che i suoi asset vengano esclusi dal conteggio?

La Francia ha chiesto che i circa €18–19 miliardi congelati sul suo territorio siano esclusi dal conteggio perché sono prevalentemente detenuti da banche private.La loro inclusione comporterebbe rischi concreti di responsabilità legale, violazione della riservatezza e potenziale esposizione degli istituti finanziari a richieste di indennizzo.

Il timore francese si inserisce in un quadro più ampio: la concentrazione di asset in depositari e infrastrutture finanziarie europee — con una quota particolarmente elevata in Belgio — rende la gestione politica di questi titoli complessa e potenzialmente onerosa. La distinzione tra asset “statali” e “privati” è cruciale perché i secondi comportano diritti di terzi che possono attivare cause civili o arbitrali; per questo Parigi preferisce soluzioni che riducano l’esposizione diretta delle banche e dei bilanci pubblici. In termini pratici, escludere gli asset francesi dal conteggio riduce le risorse immediatamente disponibili per strumenti europei a favore di Kiev, ma evita anche il rischio di shock legali e reputazionali per il sistema finanziario nazionale.

L’Italia che posizione ha? Apparentemente ambigua

L’Italia ha adottato una posizione cauta e in parte ambigua: pur dichiarando il proprio sostegno a Kiev, ha sollevato questioni giuridiche e finanziarie sull’impiego diretto degli asset russi congelati.

Roma ha respinto la proposta più radicale della Commissione di utilizzare immediatamente tali asset come garanzia o fonte di finanziamento per l’Ucraina, preferendo soluzioni che offrano maggiore certezza legale e che non espongano direttamente banche e bilanci pubblici a rischi immediati. Questa scelta va interpretata come una mossa pragmatica: non una rinuncia alla solidarietà, ma una richiesta di tutele procedurali — veicoli multilaterali, fondi fiduciari e garanzie condivise — in grado di trasformare l’immobilizzo patrimoniale in uno strumento operativo senza innescare contenziosi sistemici.

L’ambiguità apparente riflette tensioni interne ed esterne: sul piano domestico il governo media tra spinte politiche favorevoli a misure dure e preoccupazioni del settore finanziario e di segmenti economici esposti; sul piano internazionale il governo valuta le ripercussioni sui rapporti con partner europei e con Mosca, nonché i rischi per flussi commerciali ed energetici.

Politicamente, la posizione italiana tende a rallentare un accordo rapido ma può contribuire a renderlo più sostenibile nel medio termine, perché impone che qualsiasi soluzione sia accompagnata da garanzie giuridiche e meccanismi di ripartizione del rischio tra Stati membri.

 

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