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Referendum giustizia, quando si vota? Ecco perché la decisione è stata rinviata

Il governo ha deciso di rimandare a gennaio la scelta formale della data per il referendum sulla separazione delle carriere in ambito giudiziario. Dietro il rinvio pesano timori di ricorsi, una raccolta firme «parallela» in forte crescita e le pressioni del Quirinale: le ipotesi più accreditate per le urne restano la metà o la fine di marzo.

Il Consiglio dei ministri del 29 dicembre ha scelto la prudenza: niente decreto con la data del referendum nell’ultima seduta dell’anno, la decisione viene rinviata a gennaio.

Una svolta che spegne per ora il tentativo del governo di fissare le urne già all’inizio di marzo e apre una finestra di confronto politico e tecnico sul calendario e sul quesito che finirà sulla scheda.

PERCHÉ LA DECISIONE SULLA DATA È STATO RINVIATA

Il punto di svolta è stato soprattutto politico: Palazzo Chigi ha giudicato opportuno non forzare i tempi per evitare tensioni e possibili contenziosi. L’imperativo rimane quello di evitare di fornire all’opposizione un assist per caratterizzare il voto come una battaglia contro l’attuale esecutivo guidato da Giorgia Meloni.

L’ipotesi che circola negli ambienti di governo è che il voto possa tenersi il 22 e 23 marzo, ma la decisione definitiva sarà presa dopo ulteriori verifiche e consultazioni nelle prime settimane di gennaio.

I CONTATTI POLITICI

Per smorzare le polemiche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha avviato contatti diretti con i leader dell’opposizione: ha parlato con la segretaria del Pd Elly Schlein e con il presidente del M5S Giuseppe Conte.

L’obiettivo ufficiale è trovare una mediazione che riduca il rischio di uno scontro frontale sulla data e sulla procedura.

LA RACCOLTA FIRME CHE COMPLICA I PIANI

A complicare i piani dell’esecutivo è la raccolta firme avviata da un gruppo di cittadini — sostenuta anche da pezzi del centrosinistra — che in pochi giorni ha superato le centomila sottoscrizioni e punta a raggiungere quota 500 mila entro il 30 gennaio.

Se la Cassazione dovesse ammettere questo nuovo quesito, i tempi procedurali cambierebbero e la macchina referendaria dovrebbe essere ricalibrata, con il rischio di una ristampa delle schede e di possibili contenziosi.

I DUBBI DEL QUIRINALE E LE RAGIONI GIURIDICHE

Secondo alcune ricostruzioni, il Colle, nelle interlocuzioni con il governo, avrebbe indicato di non sottovalutare il rischio di ricorsi qualora si decidesse per un’accelerazione troppo spinta.

La raccomandazione non è stata espressa come un veto, ma come un avvertimento sulla prudenza procedurale: rispettare prassi e tempistiche riduce la probabilità di contenziosi che potrebbero vanificare l’organizzazione del voto.

LE DATE IN BALLO E I VINCOLI NORMATIVI

Sul piano tecnico la legge fissa finestre precise: dal decreto che indice il referendum decorrono i 50-70 giorni entro i quali la consultazione può svolgersi; inoltre esistono termini legati alla verifica dei quesiti da parte della Cassazione e ai 90 giorni entro i quali possono essere presentate raccolte firme parlamentari o popolari.

Per questo motivo il governo valuta con attenzione se forzare i tempi – inizialmente era circolata l’ipotesi dell’1-2 marzo – o puntare a metà/fine marzo (15 o 22-23), evitando sovrapposizioni simboliche come l’8 marzo o la Domenica delle Palme.

COSA SUCCEDE ORA

Nei primi giorni di gennaio Palazzo Chigi e i ministeri competenti torneranno a valutare gli aspetti tecnici (formulazione del quesito, verifica dei termini con la Cassazione, possibile impatto di nuove raccolte firme).

A quel punto il governo potrà decidere se fissare formalmente la data del referendum — e con essa l’avvio ufficiale della campagna elettorale — o allungare ulteriormente i tempi per evitare sorprese procedurali.

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