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Cosa è rimasto dei vent’anni in Afghanistan dopo l’11 settembre

11 Settembre

I Graffi di Damato

Ancora una volta nei suoi 50 anni di vita il quotidiano il manifesto, pur ancora orgogliosamente comunista nonostante il conclamato fallimento dell’ideologia cui si ispira, ha saputo più felicemente di tanti altri giornali rappresentare col suo titolo di copertina il sentimento che si avverte generalmente di fronte ad un evento come il ventesimo anniversario dell’assalto terroristico alle torri gemelle di New York. Il cui abbattimento, con tutti i morti che provocò e quelli che ancora avrebbe provocato la guerra di reazione all’Afghanistan condotta dagli americani e dai loro alleati, è ancora e certamente una “ferita aperta”, come dice appunto il titolo del manifesto. E ciò anche se nel frattempo la guerra all’Afghanistan è finita, almeno formalmente, col ritiro delle truppe di occupazione, proseguito anche dopo la vendetta eseguita con l’eliminazione fisica di chi ordinò la strage negli Stati Uniti da cui tutto ebbe origine.

A contribuire a tenere aperta – tragicamente aperta – quella ferita hanno sicuramente contribuito le modalità del ritiro delle truppe di occupazione e i troppi ostaggi civili rimasti praticamente, con la loro mancata fuga, nelle mani dei talebani tornati entusiasticamente al potere come in una passeggiata, armandosi degli abbondanti e sofisticati mezzi che gli americani hanno lasciato sul posto, o le truppe locali cui erano destinati hanno abbandonato disertando.

“Sono vent’anni che sogniamo questo momento”, ha detto un talebano all’inviato del Foglio Daniele Ranieri nella grande base ex americana tra Jalalabard e il confine pachistano, rovesciando le celebrazioni odierne a New York e in ogni altra parte dell’Occidente e del mondo che si riconobbe l’11 settembre 2001 nelle vittime del terrorismo musulmano. E sfido chiunque a contestare seriamente questa definizione, visto che l’islamismo più o meno moderato non è riuscito a sconfiggerlo, e spesso ha anche dato l’impressione di non volerlo neppure tanto convintamente ed energicamente combatterlo.

La sfrontatezza di quel talebano ha contribuito a fare sottolineare all’inviato del Foglio “il potere sgretolante di questa sconfitta militare” dell’Occidente. E a fargli scrivere che “se dopo appena vent’anni i talebani controllano molto più territorio in Afghanistan di quanto ne controllassero nel 2001 (anzi: lo controllano tutto), vuol dire che la reazione degli Stati Uniti agli attacchi dell’11 settembre non ha funzionato. La visione a lungo termine dei talebani era più realistica”.

Eppure lo stesso Ranieri ha chiuso il suo reportage scrivendo: “I talebani sono diventati un governo e devono tenere sotto controllo altri estremisti che li contestano sul piano dottrinale”, anche se hanno già oltrepassato la dottrina con gli attentati compiuti durante le operazioni di sgombero delle truppe occidentali e degli afghani in fuga. Ma oltre che con gli estremisti “dottrinali”, come li chiama ottimisticamente l’inviato del Foglio, i talebani tornati al potere debbono ora fare i conti con una popolazione non supina come vent’anni fa ai loro ordini. Non ha avuto torto, secondo me, Nadia Urbinati a scrivere su Domani un editoriale sulla “strada verso la libertà” comunque avviata, così intitolato con orgoglio non solo femminista: “L’attivismo delle donne è il vero argine ai Talebani”.

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