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Che cosa è successo dopo il raid Usa contro Soleimani

Soleimani

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana le reazioni dal Medio Oriente all’attacco con cui gli Usa hanno ucciso il capo della forza Quds dei pasdaran, il generale iraniano Qassem Soleimani e i risultati di un sondaggio dell’Università del Maryland sulla percezione da parte degli elettori americani della politica iraniana dell’amministrazione Trump.

TUTTE LE CONSEGUENZE DEL RAID USA CONTRO QASSEM SOLEIMANI

Le conseguenze dell’uccisione del capo della forza Qods Qassem Soleimani si sono dispiegate in tutta la loro gravità nella giornata di ieri mentre migliaia di cittadini iracheni ed iraniani si riversavano nelle strade per rendere l’estremo saluto al feretro del comandante avvolto nella bandiera della Repubblica Islamica.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, l’atto sicuramente più grave della giornata è stato il voto con cui il parlamento iracheno – con 170 sì e nessun no – ha chiesto al governo di porre termine alla presenza sul suolo nazionale delle forze armate a stelle e strisce.

Per assumere forza di legge, il provvedimento dovrà attendere la firma del primo ministro Adel Abdul Mahdi che tuttavia, essendo dimissionario, potrebbe non disporre dell’autorità necessaria a far compiere al suo paese un passo così drammatico.

Inoltre, nonostante il linguaggio inequivocabile usato per stilare il testo votato dalla Camera – che domanda “la fine di qualunque presenza straniera sul suolo iracheno” e chiede di “impedire l’uso dello spazio aereo, del suolo e delle acque irachene per qualsiasi motivo” a qualsivoglia esercito straniero – non viene fissata alcuna data per il ritiro delle truppe.

E non è tutto. Se si guarda bene alla composizione del voto di ieri, scopriamo che quasi metà dei 328 membri del Parlamento iracheno era assente, e tra chi non si è presentato in aula spiccavano i rappresentanti delle comunità sunnite e curde, che sulla presenza in Iraq dell’esercito più forte del mondo hanno idee diametralmente opposte rispetto ai connazionali di fede sciita.

Il segnale partito ieri da Baghdad è dunque forte ma ambiguo, perché evidenzia la netta spaccatura in seno alla società irachena tra chi, per le ragioni più varie che non comprendono la sola morte violenta di Soleimani, non vede l’ora di assistere alla partenza degli yankee e chi, al contrario, ritiene la presenza Usa un baluardo contro le ingerenze dell’Iran di cui gli uomini agli ordini di Soleimani sono il simbolo più pregnante.

Indifferente a queste sfumature, Donald Trump ha accolto il voto del parlamento iracheno schiumando rabbia e scagliando un ammonimento dietro l’altro. “Se ci chiedono di andarcene, e non lo faremo in modo amichevole”, ha minacciato il tycoon, “imporremo loro delle sanzioni come non se ne sono mai viste prima (e che) faranno apparire poca cosa quelle contro l’Iran”.

Ricorrendo all’argomento retorico più frequente del suo armamentario, The Donald ha anche avvertito gli iracheni che ci sarà un prezzo da pagare. “Non ce ne andremo”, ha spiegato, “prima che ci ripaghino per tutto”. In Iraq, ha chiarito ad esempio il capo della Casa Bianca, “abbiamo una base dell’aviazione” per costruire la quale l’America ha sborsato “prima che arrivassi io miliardi di dollari”.

Mentre questa rissa si consumava a cavallo degli oceani, piombava come un macigno l’annuncio della Global Coalition contro l’Isis – il poderoso dispositivo militare che Trump ha ereditato da Obama e che conta tra le proprie fila un’ottantina di Paesi –  di aver sospeso temporaneamente ogni attività.

Dall’Iran, frattanto, partivano dardi infuocati in direzione degli Usa. Oltre alla diretta dei funerali di Soleimani, i telespettatori hanno potuto assistere al più classico dei riti marziali della Repubblica Islamica inscenato dentro l’aula del parlamento di Teheran, dove i deputati hanno intonato in coro, davanti alle telecamere, “morte all’America”.

Ci ha pensato il consigliere militare della Guida Suprema Ali Khamenei, nel pomeriggio, a tradurre il messaggio: la reazione della Repubblica Islamica all’attacco proditorio degli Usa arriverà molto presto, ha dichiarato Hossein Dehghan, e assumerà la forma di un attacco a “obiettivi militari Usa”.

Altri segnali inquietanti  partivano nel frattempo dal vicino Iraq e dal Libano, ossia da altrettanti feudi iraniani. Sul primo fronte, la milizia Kataib Hezbollah – quella presa di mira alla fine dell’anno dai raid dell’aviazione Usa che hanno ucciso una ventina di suoi esponenti – ammoniva l’esercito regolare iracheno a mantenersi a debita distanza – almeno 1 km, si è voluto precisare – dalle basi dove stazionano gli americani. Non vogliamo “scudi umani”, è il significato, quando prenderemo a bersagliare quelle installazioni.

Più a est, sulle rive del Mediterraneo, ci pensava il capo di Hezbollah – creatura prediletta dell’ormai scomparso Soleimani – a promettere vendetta per l’affronto subito dagli Usa, invitando i suoi miliziani a considerare le basi, le navi e i soldati della superpotenza presenti nella regione come dei “legittimi obiettivi”.

Ma i tamburi di guerra che rullavano dal Medio Oriente non hanno intimorito il presidente degli Stati Uniti, che al contrario rilanciava annunciando di aver individuato 52 obiettivi in Iran – nella lista ci sarebbero anche siti culturali – pronti ad essere mandati in cenere se qualcuno compisse la mossa sbagliata.

Lesta è stata allora la replica dei vertici della Repubblica Islamica, con il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif a definire su Twitter un eventuale attacco a siti culturali come un “crimine di guerra” degno dei tagliagole dell’Isis e il suo collega delle Telecomunicazioni, Mohammad Javad Azari-Jahromi, a bollare Trump come “un terrorista in giacca e cravatta” paragonabile a Hitler e a Gengis Khan.

Ma il passo più radicale compiuto dalla Repubblica Islamica in reazione ai fatti dei giorni precedenti è stato l’annuncio, diramato dal governo nel pomeriggio, che “il programma nucleare iraniano non avrà più limitazioni (…) inclusa la capacità di arricchimento”.

È, insomma, un nuovo passo al di fuori della cornice del JCPOA, l’accordo nucleare del 2015 ripudiato l’anno scorso dall’amministrazione Trump per lo scorno degli ayatollah, cui non è rimasto altro che minacciare di violare il patto – e numerosi passi sono già stati fatti in questa direzione – mettendo tutti sotto ricatto.

Si deve assai probabilmente a questa mossa choc la decisione del nuovo Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue, lo spagnolo Josep Borrell, di invitare urgentemente Zarif a Bruxelles. I due si sono anche sentiti per telefono ieri in una conversazione servita al successore di Federica Mogherini per sollecitare l’Iran a “fare esercizio di moderazione” e “evitare ulteriore escalation”.

Peccato che l’Europa possa fare davvero ben poco in questo scontro che la vede ai margini da tutti i punti di vista, e anzi la rende invisa all’America che non ha digerito le attenzioni riservate dal Vecchio Continente ad un paese contro cui gli Usa hanno deciso di regolare i conti una volta per tutte.

Sarà anche per questo che ieri il Segretario di Stato Mike Pompeo, in un’intervista rilasciata a Fox News, ha riservato parole poco commendevoli per gli alleati europei, che non solo sarebbero stati “di poco aiuto” in questa circostanza, ma sembrano proprio non capire che “quello che abbiamo fatto” uccidendo Soleimani “ha risparmiato vite anche in Europa”.

 


Sondaggio: gli americani non vogliono la guerra contro l’Iran

Se l’intenzione di Donald Trump – ordinando l’uccisione di Qassem Soleimani – era di preparare il popolo americano ad un possibile conflitto contro la Repubblica Islamica, farebbe meglio, prima di scatenare fuoco e furia contro gli ayatollah, a dedicare del tempo alla lettura di un sondaggio realizzato a settembre dall’Università del Maryland su un campione di 3.016 cittadini americani.

Scorrendo i risultati della rilevazione, il tycoon scoprirebbe anzitutto che solo il 21% degli americani è del parere che una guerra contro l’Iran è indispensabile per perseguire gli obiettivi fissati dalla politica estera Usa, mentre ben il 76% pensa che questi obiettivi possano essere raggiunti senza bisogno di scatenare un conflitto.

E non sono solo questi i dati che non piaceranno a chi, tra i consiglieri del tycoon, tifa per la guerra. Va segnalato, ad esempio, che vi sono solo marginali differenze tra gli elettori del partito di Trump e quelli dell’opposizione, in ambedue i casi in schiacciante maggioranza contrari ad un conflitto (76% i repubblicani e 89% i democratici).

Queste non sono le uniche sorprese riservate dall’Università del Maryland all’amministrazione Trump. Attraverso un nuovo sondaggio realizzato esattamente un mese dopo, gli accademici hanno scoperto che il popolo americano e il suo governo non hanno affatto la stessa idea circa l’origine delle attuali tensioni tra Usa e Iran.

Appena il 5% del campione, tanto per cominciare, attribuisce alle ingerenze iraniane nella guerra in Yemen – vale a dire, uno degli esempi di “condotta maligna” della Repubblica Islamica denunciati dai trumpiani – la fonte degli odierni problemi.

Più robusta, ma sempre minoritaria (22%), la fetta degli intervistati che identifica il problema nella “natura” del regime al potere a Teheran – posizione storica dei falchi americani che l’amministrazione Trump sembra aver fatto interamente propria nonostante abbia da poco scaricato l’uomo che più di altri ne aveva fatto il proprio vangelo, vale a dire John Bolton.

La percentuale di risposte positive si innalza sensibilmente invece quando la causa delle frizioni è identificata rispettivamente nelle decisioni del governo di ritirarsi dal patto nucleare del 2015 (35%) e di reintrodurre le sanzioni contro la Repubblica Islamica (34%).

Visti tali dati, non sorprende la quota di americani che – alla fine della fiera –  disapprova la politica iraniana dell’amministrazione Trump: si tratta di un sonante 57%, per giunta in aumento di sei punti rispetto all’analoga rilevazione compiuta a settembre.

Dato per assodato il parziale dissenso degli elettori nei confronti della linea scelta dal governo nei confronti dell’Iran, resta da chiedersi cosa essi pensino effettivamente di questa linea: quali obiettivi, in altre parole, gli americani pensano che  stia perseguendo la Casa Bianca.

Scopriamo così che una fetta analoga di americani ritiene che l’amministrazione Trump stia cercando rispettivamente di impedire all’Iran di dotarsi della bomba (30%) ovvero di distruggere l’eredità di Barack Obama (28%), che come è noto è l’artefice del patto nucleare con gli ayatollah tanto detestato dal suo successore.

Decisamente residuali le altre risposte, con un 7% che pensa che l’obiettivo di Trump sia mutare la condotta della Repubblica Islamica nella regione, un 9% che attribuisce al governo il desiderio di apparire forte agli occhi del popolo americano e un 3% convinto che il sogno di The Donald e soci sia di cambiare il regime a Teheran. Chiude il quadro il 15% di intervistati senza opinione.

Prima di tirare le conclusioni, è forse il caso di ricordare che quella demoscopica non è notoriamente una scienza esatta e che il sentiment dell’opinione pubblica è tradizionalmente ballerino.

Può inoltre essere utile evidenziare che a tirare fuori ora questo sondaggio è stato un magazine come Foreign Policy che, a dispetto dell’0ttima fattura dei suoi articoli e dello spessore dei loro autori, non ha mai lesinato critiche anche feroci nei confronti di Trump e della sua politica estera.

Pertanto, quando la rivista osserva che le conclusioni da trarre dal sondaggio sono tre – la maggioranza degli americani non vuole la guerra contro l’Iran, disapprova la politica iraniana dell’amministrazione Trump e condivide solo in parte gli obiettivi di questa politica – sarà bene ricordare che sei giorni fa in America è iniziato l’anno elettorale, e che Foreign Policy non tiferà certo per un bis del tycoon.

 


Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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