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Covid-19, come la pandemia ha travolto i rapporti Stati Uniti-Cina

Hong Kong

L’analisi di scenario del Centro Studi Fb&Associati sull’impatto del Covid-19 sui rapporti di forza Stati Uniti-Cina e la riorganizzazione dei sistemi economici globali con le ripercussioni sul caso italiano

Con l’irruzione nello scenario globale del coronavirus si affaccia lo spettro della recessione economica: una variabile destinata a modificare l’ordine internazionale. L’emergenza in corso rappresenta quindi uno snodo importante di questa epoca, in funzione del quale saranno fissate le direttrici di assetti politici futuri, ma anche una sfida tra «Occidente» e «Oriente». Ad essere testate sono, infatti, l’efficienza degli apparati statali, la disciplina sociale delle popolazioni, il progresso scientifico e l’abilità delle élite nell’ideare soluzioni efficaci a problemi nuovi e complessi. Al netto dei rapporti di forza tra Stati Uniti e Cina, che non sembrano suscettibili di modificarsi nel breve e probabilmente anche nel medio periodo, la gestione dell’emergenza per queste potenze ha un valore in sé, almeno in termini di public diplomacy. Con il presente lavoro si intendono tracciare quindi i lineamenti della contesa egemonica che ne trae origine e la cornice politica entro cui si inseriscono.

 

LA GUERRA COMMERCIALE STATI UNITI-CINA

Il quadro internazionale odierno è contrassegnato dalla destrutturazione dell’ordine politico, economico e istituzionale delineatosi nel secondo dopoguerra.

Tratto distintivo delle relazioni internazionali contemporanee è l’interdipendenza. Nel caso di Stati Uniti e Cina questa relazione, stretta e contraddittoria, può sintetizzarsi nella diade collaborazione/contrapposizione.

La Repubblica popolare è infatti il più importante partner commerciale degli Stati Uniti, il primo esportatore verso il suo mercato, un investitore fondamentale, un acquirente del suo debito pubblico, nonché la destinazione della delocalizzazione di molte sue imprese.

Il mercato statunitense ha trainato la crescita cinese grazie anche all’import di capitali con cui sono stati creati milioni di posti di lavoro e all’acquisizione di competenze e tecnologie con cui è aumentata la capacità industriale.

Per quanto funzionale agli interessi di entrambi, l’interdipendenza sino-statunitense ha prodotto negli anni squilibri ampi e sempre meno sostenibili, cui l’amministrazione Trump ha scelto di replicare con forza. Secondo il Department of Commerce nel 2017 il disavanzo americano ammontava infatti a 375 miliardi di dollari.

Nel marzo 2018 è stata annunciata da Trump l’imposizione di una tariffa del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio dalla maggior parte dei paesi, cui Pechino ha replicato con l’introduzione di dazi equivalenti su prodotti americani.

Gli Stati Uniti ritengono la controparte responsabile di furti di proprietà intellettuale, restrizioni all’accesso di beni e servizi sul mercato cinese e, soprattutto, di pratiche commerciali illegittime. Washington, dal punto di vista di Pechino, è responsabile invece della violazione degli accordi stipulati in sede WTO (World Trade Organization) che costituiscono la nervatura del commercio internazionale.

La competizione Stati Uniti – Cina nel corso degli anni si era peraltro arricchita di nuovi capitoli: militare, geopolitico (es. rapporti con diversi paesi nel Mar Cinese Meridionale; isole Diaoyu / Senkaku, situate nel Mar Cinese Orientale) e tecnologico.

Fra le pratiche cinesi che gli americani contestano, a quest’ultimo riguardo, vi sono infatti le violazioni della proprietà intellettuale e la cessione forzata di tecnologie, il cui costo annuale per l’economia americana – secondo un’indagine dello S. Trade Representative del marzo 2018 – ammonta fra i 225 e i 600 miliardi USD.

In questo scenario l’amministrazione Trump si è prodigata per limitare la possibilità che il colosso cinese Huawei diventasse fornitore di tecnologie 5G negli Stati Uniti e, adducendo ragioni di sicurezza, ha «invitato» i partner occidentali ad oggi, per la verità, senza grandi risultati – a fare altrettanto.

A dispetto dei propositi di Trump il riequilibrio della bilancia commerciale e finanziaria americana si presenta lungo e complesso. Le misure tariffarie adottate dalla amministrazione nei confronti delle merci cinesi non hanno sortito gli effetti sperati.

L’accordo firmato a gennaio 2020 da Stati Uniti e Cina non risolve le controversie tra i due paesi. La Cina si impegna ad acquistare almeno 200 miliardi in più di prodotti americani all’anno, a rafforzare la tutela dei diritti di proprietà intellettuale e ad abolire i trasferimenti forzosi di tecnologia dalle imprese americane che investono nel paese. Gli Stati Uniti dal canto loro si astengono dall’aumentare ulteriormente i dazi, ne mantengono su merci per un valore di 360 miliardi di dollari e li riducono su beni di consumo che valgono circa 120 miliardi di dollari di importazioni. Le condizioni stipulate delineano quindi una tregua.

 

IL DECOUPLING

Se il rapporto Stati Uniti – Cina è stato caratterizzato dall’integrazione di beni, capitale, tecnologia e persone, in ragione della guerra commerciale saremmo innanzi ad una possibile biforcazione. La necessità di allineare gli interessi economici a quelli di sicurezza potrebbe comportare, infatti, l’interruzione delle catene globali del valore e la rilocalizzazione della produzione delle imprese strategiche fuori dal territorio del competitor e dei relativi alleati, rivoluzionando in conseguenza il commercio internazionale.

Tale ipotesi è stata in parte avvalorata lo scorso dicembre quando sulla stampa internazionale è trapelata la notizia che il Partito Comunista Cinese avrebbe ordinato a tutti gli uffici governativi e alle istituzioni pubbliche di sostituire apparecchiature e software informatici stranieri entro tre anni, in un apparente tentativo di aumentare la sicurezza, ridurre la dipendenza e l’uso della tecnologia straniera. Negli stessi giorni Apple acquisiva la divisione modem di Intel per non dipendere più da Qualcomm e dai produttori cinesi. Un ulteriore passo in avanti per «americanizzare» quanto più possibile iPhone e iPad.

Se è vero che entrambe le potenze sembrano intenzionate a mantenere un controllo sulle proprie aziende, i relativi fornitori e sulle tecnologie in loro possesso, è altrettanto vero che il reshoring, il passaggio a nuovi fornitori, così come la ricostruzione di reti logistiche e con essi la fiducia e la garanzia della qualità, rischia di determinare in conseguenza un significativo aumento dei costi almeno nel breve periodo.

Il decoupling interesserebbe tanto i settori tecnologici e industriali quanto gli apparati scientifici e istituzionali. Venendo meno l’integrazione degli ecosistemi dell’innovazione globale potrebbe presto delinearsi un divario economico e culturale tra le due parti. Decoupling in altre parole potrebbe quindi significare riorganizzazione del sistema capitalistico mondiale in due fazioni: un fattore di instabilità

 

IL CORONAVIRUS E LA POSTA IN PALIO

Con l’irruzione nello scenario del coronavirus siamo innanzi alla «tempesta perfetta». La preoccupazione per un rallentamento globale della crescita, da più parti avvertita nel 2019, sembra destinata a trasformarsi, infatti, in una recessione più acuta di quella del 2008-2009.

In presenza di uno choc esterno, improvviso e violento, molteplici onde destabilizzatrici vanno propagandosi sulla fragile e cangiante architettura delle relazioni internazionali. Processi storico-politici che, in tempi «ordinari», hanno una velocità di incubazione anche di decenni, in questa precisa fase conoscono un’accelerazione Vedono così la luce, dispiegando la loro carica innovatrice e talvolta esaurendola altrettanto rapidamente, moltissime trame di politica internazionale.

Il corso che intraprenderà l’attuale potenza superiore del sistema internazionale, gli Stati Uniti, avrà ovviamente un grande impatto sui nuovi assetti politici che scaturiranno da questa crisi. Laddove anche in questa delicata fase venisse confermata la tendenza al «disimpegno» su scala globale da parte degli Stati Uniti all’ulteriore vuoto che ne deriverebbe potrebbe corrispondere un’ulteriore supplenza egemonica cinese. Un’ipotesi che non è tuttavia suscettibile di modificare, certamente nel breve e probabilmente anche nel medio, i rapporti di forza tra le due potenze.

Allo stato dell’arte Pechino è impegnata in un duplice sforzo: «all’interno del sistema» per trasformare l’ordine internazionale post-1945 e al di fuori per costruire un ordine alternativo attraverso istituzioni embrionali come la Banca dei BRICS, quella dell’AIIB, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai ed iniziative come la Nuova via della Seta.

Dalla dialettica Stati Uniti – Cina scaturiranno ulteriori conseguenze sugli attori nazionali e sovranazionali in funzione della posizione che gli stessi hanno nella gerarchia politico-economica internazionale. In questo senso l’Unione Europea, ammesso che sia in grado di esprimere un indirizzo forte e univoco, e poi Germania, Francia e Italia sono tendenzialmente variabili subordinate.

Il coronavirus rappresenta non soltanto uno snodo decisivo delle relazioni internazionali di questa epoca, in funzione del quale saranno fissate le direttrici degli assetti politici futuri, ma anche e soprattutto una sfida tra «Occidente» e «Oriente». Ad essere testate sono, infatti, l’efficienza degli apparati statali, la disciplina sociale delle popolazioni, il progresso scientifico e l’abilità delle élite di ideare soluzioni efficaci a problemi nuovi e complessi.

Le performance dei sistemi-paese in questo momento è ipso facto un messaggio universalista di straordinaria forza mentre la creazione del vaccino, l’imperativo categorico di questa fase, il simbolo per eccellenza del primato di un sistema.

LA RISPOSTA CINESE

L’epidemia di coronavirus, secondo il presidente Xi Jinping, è stata la più grave crisi di salute pubblica nella storia della Repubblica popolare. Dalle carenze emerse nella risposta, ha aggiunto lo scorso febbraio, bisogna trarre insegnamento. Esplosa nella metropoli di Wuhan e dilagata rapidamente nella provincia dello Hubei, l’emergenza ha sottoposto ad una notevole sollecitazione l’intero sistema-paese.

A dispetto dei ritardi iniziali la risposta, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è stata all’altezza: un’impresa resa possibile «dallo sforzo di contenimento di una malattia più ambizioso, flessibile e aggressivo della storia».

Lasciatasi alle spalle la fase acuta della crisi sanitaria, il Pil del primo trimestre di quest’anno segna -6,8%, Pechino dovrebbe rivedere al ribasso il proprio obiettivo di crescita economica per il 2020 attestandolo intorno al 5%. Per rilanciare un’economia fortemente provata dall’emergenza si vorrebbe aumentare la spesa, stimolando investimenti infrastrutturali sostenuti da obbligazioni speciali del governo. Come già nel 2008 si intende quindi guadagnare credito a livello internazionale rilanciando il primato dello Stato in economia e il suo ruolo di indirizzo

Allo stesso tempo il governo cinese è intenzionato a trasformare questo «cigno nero» in un’opportunità. Appannata dalle proteste di Hong Kong, l’immagine planetaria della Cina con la diffusione del coronavirus ha subito un ulteriore e significativo offuscamento. Il mix di soft e hard power approntato in risposta da Pechino ha quale obiettivo fare del paese un vero e proprio modello per la gestione della crisi e per le soluzioni ai problemi che ne conseguono.

Tale proposito si è tradotto anzitutto nell’invio di forniture mediche, attrezzature ed esperti, ai paesi più colpiti dall’emergenza epidemiologica. Nel clima di apprensione ed emozione, per la tragica escalation della malattia, la cosiddetta diplomazia della mascherina ha finito per assumere – in alcuni contesti nazionali – dei connotati salvifici, dispiegando quindi al meglio le sue potenzialità e rafforzando in ultima istanza la percezione internazionale del governo

L’impennata dei contagi che sta interessando gli Stati Uniti, secondo l’Oms potrebbe trattarsi del «prossimo epicentro dell’epidemia», è oggetto di un’attenta riflessione a Pechino. Diversamente dal celebre adagio maoista, «grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente», l’instabilità internazionale oggi è il più grande timore

Le ripercussioni che l’emergenza potrebbe avere negli Stati Uniti e a cascata a livello internazionale possono determinare le condizioni per un coup de théâtre. L’«adulto responsabile» Xi Jinping, per riprendere la definizione che il Financial Times ne diede nel 2017 a Davos, potrebbe offrire a Donald Trump il suo aiuto, sotto forma ad esempio di Health Silk Road. Molteplici sarebbero i risvolti politici, simbolici e valoriali che ne deriverebbero per Pechino se Washington accettasse mentre un rifiuto aprirebbe quantomeno un confronto nell’opinione pubblica occidentale.

Sfidata già dalle straordinarie acquisizioni economiche e sociali della Repubblica popolare nell’ultimo quarantennio, in discussione oggi più di ieri è la proposta valoriale e ideologica dell’«Occidente».

GLI STATI UNITI E LA RICERCA DI UNA NARRAZIONE

Il 3 novembre si terranno negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. La sanità era al centro dello scontro politico prima dell’irruzione del coronavirus: a tornare in auge ora è lo spettro della crisi economica.

Per Trump la gestione dell’emergenza coronavirus rappresenta una prova fondamentale: il suo destino politico è legato all’abilità che riuscirà a dimostrare nel contenimento epidemiologico e nella risposta economico-sociale. Una gestione ritenuta carente è destinata a pregiudicarne la rielezione.

Ostentatamente sottovalutata nelle settimane passate, l’emergenza è esplosa in una fase storica contrassegnata da un feroce scontro all’interno dell’amministrazione americana. Il processo per l’impeachment di Donald Trump, conclusosi con la sua assoluzione il 5 febbraio scorso, ne è stata una espressione politica superficiale.

Un consenso bipartisan si è invece consolidato negli ultimi anni attorno alle modalità di relazione con la Cina, con l’imperativo di favorire il containment a discapito dell’engagement. Per Trump in particolare tale rapporto è intrinsecamente antagonistico e competitivo.

A dispetto della tregua nella guerra commerciale, siglata lo scorso gennaio, le relazioni tra Stati Uniti e Cina hanno subito un rapido deterioramento nelle scorse settimane a causa delle reciproche recriminazioni sull’origine della pandemia e delle teorie cospirative circolate da entrambi i versanti.

Profonda irritazione è stata espressa dalla diplomazia cinese per l’utilizzo insistito da parte di Trump delle locuzioni «virus Wuhan» o «virus cinese» al posto di COVID-19. Un artificio funzionale a livello domestico ma assolutamente insufficiente rispetto alla portata dell’offensiva cinese nelle relazioni pubbliche internazionali.

In gioco è quella straordinaria capacità che gli Stati Uniti hanno storicamente avuto nel creare un clima e delle condizioni favorevoli alla loro politica a livello mondiale. Quell’insieme di attività relazionali e di comunicazione attuate da organizzazioni pubbliche o private per promuoverne la cultura, la storia, gli avanzamenti scientifici, manca in questa fase di una narrazione.

IL CASO ITALIANO

Nel marzo 2019 l’Italia firmava il memorandum d’intesa per la Nuova via della Seta, primo paese del G7 a farlo. A dispetto degli sforzi profusi l’export italiano in Cina in quest’anno non è cresciuto: l’export 2019 (12.992,63 mln. €) segna invece un lieve calo rispetto al 2018 (13.188,66 mln. €). Negli intendimenti del sottosegretario leghista Geraci, regista dell’adesione italiana alla Nuova via della Seta, l’obiettivo dell’operazione, era incrementare l’export verso la Cina da 13 a 20 miliardi. Considerato l’impatto che la crisi da Covid-19 avrà sul commercio internazionale, il WTO prevede un crollo tra il -10% e il –30%, l’export verso la Cina potrebbe conoscere peraltro un’ulteriore flessione pari a 2,6 miliardi.

La decisione del governo italiano di interrompere i collegamenti aerei con la Cina al principio dell’emergenza Covid-19 in Europa, alla fine del gennaio scorso, è stata interpretata da Pechino come un atto inappropriato. Il concerto straordinario per la Cina organizzato dal Quirinale il 13 febbraio successivo, alla presenza dell’ambasciatore della Repubblica popolare in Italia, e la donazione di materiale sanitario operata dal Ministro degli esteri Di Maio negli stessi giorni, sono rientrati quindi nel più ampio tentativo di salvaguardare i rapporti tra i due paesi.

L’esplosione dell’emergenza in Italia è coincisa temporalmente con il riuscito contenimento in Cina. Sulla stampa nazionale e internazionale è iniziato in conseguenza a farsi strada il «modello Wuhan»: esponenti politici di maggioranza e opposizione, così come notisti e opinion maker, a tale locuzione sono ricorsi per indicare una soluzione efficiente alle problematiche socio-sanitarie manifestatesi.

Il titolo in prima pagina del Quotidiano Nazionale del 10 marzo, «Fate come in Cina», ha in questo senso rappresentato l’acme del consenso riscosso dal modello cinese. Progressivamente ispirazione è stata tratta anche dalle esperienze in Corea del Sud, Taiwan e Israele.

La retrocessione completa dell’Europa alla sua dimensione intergovernativa, in occasione dell’emergenza, ha schiuso margini di iniziativa inaspettati per la Cina e anche per la Russia, parimenti desiderosa di migliorare la propria percezione Al clima favorevole nei confronti di Pechino molto hanno contribuito donazioni e vendite all’Italia di forniture mediche, nel volgere di pochissimi giorni divenute introvabili e oggetto di forti tensioni politiche con i paesi europei che ne impedivano l’export.

Se le principali realtà imprenditoriali cinesi insediate in Italia si sono mobilitate finanziariamente per contribuire allo sforzo umanitario in corso, di non secondario rilievo sono risultate le molteplici e variegate iniziative solidaristiche promosse dalle comunità locali cinesi in giro per l’Italia in favore del personale sanitario, di agenti di pubblica sicurezza e semplici cittadini.

In questo scenario il 16 marzo scorso si è svolto un colloquio telefonico tra il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping e il presidente del consiglio Giuseppe Conte, nel quale il primo si sarebbe reso disponibile «a lavorare con l’Italia per contribuire alla cooperazione internazionale nella lotta all’epidemia e per la costruzione di una Health Silk Road».

Dal «radar» SWG del 6 aprile emergeva che il 36% degli italiani esprimeva la sua preferenza per la Cina come partner internazionale, mentre solo il 30% optava per gli Stati Uniti. Contestualmente la fiducia nelle istituzioni europee crollava: quella nell’Unione europea passava dal 42% del settembre scorso al 27% mentre quella nella Commissione e nella Bce scendevano rispettivamente dal 41 al 24 e dal 43 al 25. Bisogna muovere da questi dati per comprendere le ragioni della campagna d’opinione contro la Cina, che si osserva nelle ultime settimane in Italia e in Europa ad opera di alcuni forze politiche e di organi stampa.

Lo «smottamento» dell’opinione pubblica italiana ha allarmato, e non poco, le cancellerie occidentali che tuttavia alla pars destruens, volta a confutare assunti e propositi della cosiddetta diplomazia della mascherina cinese, non sono in grado di accompagnare un’adeguata pars construens.

Per un verso, infatti, al di là degli artifici retorici di Trump e delle paventate azioni legali nei confronti della Cina per le responsabilità connesse alla diffusione del virus, gli Stati Uniti sono sostanzialmente assenti nelle relazioni pubbliche internazionali; di fronte alla portata dell’offensiva cinese mancano cioè di una narrazione dell’emergenza. Scarsa eco hanno avuto, nel caso italiano, la consegna al Ministero della Difesa italiano, da parte degli Stati Uniti, prima di un sistema mobile di stabilizzazione dei pazienti con 10 posti letto e, successivamente, di materiale sanitario per 100 milioni di dollari annunciato da Trump.

Per altro verso, e veniamo quindi all’Europa, a poco o nulla vale – in termini percettivi – l’inclusione del recovery fund, simbolo della solidarietà comunitaria, nel pacchetto di provvedimenti licenziati dal Consiglio europeo di fronte allo scoramento suscitato dalle incertezze

La contesa egemonica purtuttavia non è destinata a nutrirsi di soli simboli. Decisive risulteranno le risposte politiche che all’incombente crisi economica verranno date a livello nazionale e internazionale.

Il Piano Marshall da più parti evocato anche in Italia – è utile ricordare – rispondeva a logiche di natura politico-ideologica ed economica: non a caso prese in genere la forma di sovvenzioni e non di prestiti. Vale la pena domandarsi, quindi, quale sia l’attore internazionale in grado per capacità e volontà di farsi promotore in questo momento storico di un siffatto piano per poi considerarne le implicazioni geo-politiche.

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