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I 42 giorni di Gaza: ma la tregua non c’è

tregua Gaza

Il piano per la tregua a Gaza è pronto ma il via libera non è ancora arrivato. Non sono solo i dettagli in discussione ma aspetti centrali del piano che dovrebbe riportare il Medioriente a uno stato di tregua armata. Il racconto dei quotidiani in edicola 

 È una tregua “fragile” quella che attende Gaza. Sebbene annunciato, il cessate il fuoco non è stato ancora deciso nella disputa tra Israele e Hamas. “Quel «siamo vicini» che viene ripetuto come un mantra da troppi giorni, ha illuso non poco le speranze ieri, quando, nel pomeriggio, si era diffusa la notizia che Hamas aveva accettato l’accordo – spiega Nello Del Gatto su La Stampa -. Un’intesa di fatto già presentata a maggio e a luglio, e ora rifinita ai colloqui di Doha”. E invece da parte palestinese il “sì” tarda ad arrivare “perché Israele non avrebbe presentato le mappe del ritiro delle sue forze da Gaza. Sarà per le mappe, sarà per attendere la risposta del leader de facto di Gaza, Mohammed Sinwar, il fratello minore dell’ex capo Yahya, sta di fatto che l’accordo non è ancora definito”, scrive ancora La Stampa.

La tregua, secondo il piano, dovrebbe articolarsi in tre fasi: prima il ritiro delle forze israeliane dai centri abitati, poi il rilascio degli ostaggi e infine la ricostruzione di Gaza.

GLI OSTACOLI SUL CAMMINO DELLA TREGUA A GAZA 

Ma gli ostacoli sul cammino della tregua sono notevoli. Uno dei principali riguarda le “discussioni su quanti terroristi rilasciare per ogni ostaggio”, come dice Gideon Sa’ar, ministro degli Esteri di Israele, a Maurizio Caprara sul Corriere della Sera. “Poi la presenza delle nostre forze armate nella Striscia durante l’applicazione dell’accordo che sarà graduale. Adesso si riassumono le cose che succederanno nella prima fase, la quale si suppone di 42 giorni”. La preoccupazione è che, come successo a novembre del 2023, Hamas dopo una settimana decida di non rilasciare più ostaggi. “Il premier è stato categorico: «Non lasceremo Gaza fino a quando non saranno usciti tutti» – scrive ancora Del Gatto -. Diversa la preoccupazione degli oppositori, che vede tra le fila sia i ministri del governo, con in testa Ben Gvir, che il Forum Tikva dei familiari degli ostaggi. Questi sono preoccupati che fare uscire detenuti palestinesi anche ergastolani accusati di reati gravi, sia pericoloso per Israele”.

LE CONCESSIONI DI ISRAELE PER LIBERARE LE CINQUE SOLDATESSE

Eppure sono pesanti le condizioni dell’accordo che Israele è disposto ad accettare. Liberare quegli “uomini con le mani sporche di sangue” che un anno e mezzo fa non aveva voluto rilasciare. In cambio Hamas rilascerà, tra gli altri, le cinque soldatesse “Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniela Gilboa e Naama Levy il 7 ottobre erano spotter della base militare di Nahal Oz, soldate incaricate di sorvegliare il confine, che a più riprese avevano dato l’allarme su quello che stava per accadere a Gaza e che non furono ascoltate”, spiega Francesca Caferri su La Repubblica. “Sui loro nomi nel novembre 2023 era crollato il primo cessate il fuoco: Israele le rivoleva indietro immediatamente, Hamas pretendeva di consegnare prima gli uomini anziani – continua Caferri -. Per riportarle a casa, ora Tel Aviv è pronta a ingoiare uno dei bocconi più amari dell’accordo: 50 detenuti palestinesi per ciascuna, mentre per ogni altro ostaggio e per ogni corpo, saranno rilasciati 30 palestinesi. Non basta: sui 250 del totale, 30 saranno quelli condannati per aver ucciso degli israeliani”. Le soldatesse sono diventate i “volti più noti, e più dolorosi, della crisi: prove viventi del fallimento dello Stato il 7 ottobre, ma incarnazioni della paura, di quel fantasma, di violenze sessuali su vittime e ostaggi che da quel giorno ossessiona Israele”.

CHI C’È DOPO HAMAS? LE CONDIZIONI DI ISRAELE

Nella composizione del quadro israeliano sono tanti gli attori in campo. Ieri sera, come riporta il Sole 24 ore, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani a Villa Madama ha incontrato l’omologo israeliano Gideon Sa’ar “che ha fissato dei paletti sulle condizioni dell’intesa – l’accordo sul rilascio di tutti gli ostaggi, anzitutto, quindi non parziale – e ha lanciato accuse anche all’Anp: «Nella situazione attuale, creare uno Stato palestinese vorrebbe dire creare uno Stato con Hamas, c’è un motivo perché l’Anp non ha organizzato elezioni dal 2005, ci sono buoni motivi”.

Il ministro israeliano è categorico sul “no” a uno Stato a guida Hamas perché non risolverebbe “il conflitto ma andrebbe a deteriorare la sicurezza e la pace nella regione. L’Autorità palestinese deve smettere di proteggere i terroristi», e non solo: «devono smettere di incoraggiare terroristi». E ha aggiunto: «L’Anp non può più finanziare i terroristi, è quanto sta accadendo adesso» ha detto riguardo al piano per il dopoguerra a Gaza presentato da Antony Blinken”.

Quindi a governare Gaza potrebbe essere l’Autorità nazionale palestinese? “Non dobbiamo dettarlo noi – dice Gideon Sa’ar al Corriere della Sera -. Abbiamo solo due condizioni: che quanti gestiranno la Striscia di Gaza non siano coinvolti in terrorismo e suoi incoraggiamenti né incitino contro Israele e gli ebrei”.

RIFORMARE L’ANP PER TENERE LONTANA HAMAS

Il primo passo, una volta che la tregua sarà fattiva, riguarderà la riforma dell’Anp “che è gestita dal partito Fatah, un tempo anche amministratore della Striscia prima di essere cacciato da Hamas”, come scrive Micol Flammini sul Foglio. “Non sarà semplice riformare un lento carrozzone corrotto come l’Anp, ma per quanto riguarda Gaza, secondo il segretario di stato che sta per lasciare il suo posto a Marco Rubio, è importante che la nascita di uno stato palestinese non sia legata a Hamas, che non deve ricevere nessuna ricompensa politica dopo il massacro del 7 ottobre contro i kibbutz di Israele e dopo aver scatenato una guerra che ha portato a un numero ancora incalcolabile di vittime: è stato Blinken a riportare le parole di Yahya Sinwar, capo di Hamas ucciso a ottobre, che chiamò le vittime civili un “sacrificio necessario”. Un piano, quello di Blinken, che prevede più tappe “l’Anp dovrà invitare la comunità internazionale a stabilire un’amministrazione provvisoria a Gaza, responsabile di ogni questione civile dalla sanità all’istruzione e dovrà coordinarsi con Israele”, “l’Anp dovrà lavorare con un alto funzionario dell’Onu responsabile della ricostruzione di Gaza” e, inoltre, “la sicurezza dovrà essere affidata a una forza temporanea costituita da palestinesi e paesi arabi, che subirà molti controlli per evitare che non abbia tra i suoi ranghi affiliati di Hamas”.

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