Il premier israeliano vuole che le forze dell'Unifil si ritirino "dalle roccaforti e dalle aree…
L’Iran viola l’accordo nucleare e torna ad arricchire l’uranio sopra i livelli consentiti
In Primo Piano, le due violazioni dell’accordo nucleare (Jcpoa) decise dall’Iran la settimana scorsa. Nella sezione “Notizie dal mondo”, la svolta nella transizione in Sudan con la nascita di un Consiglio congiunto militari-civili, le ultime novità sul caso degli S-400 acquistati dalla Turchia nonostante l’ira di Washington, il test balistico della Cina nel Mar Cinese Meridionale, la preoccupazione del Consiglio di Sicurezza Onu sull’escalation in Libia. Le “Segnalazioni” raccolgono alcuni articoli della stampa estera sulle elezioni di ieri in Grecia.
PRIMO PIANO
A tredici mesi dal ritiro unilaterale da parte degli Usa, l’accordo nucleare con l’Iran (Jcpoa) si è sgretolato definitivamente sull’onda di due mosse choc di Teheran pensate per costringere l’Europa a smarcarsi dall’America e dalle sue sanzioni.
Il primo atto di questa sequenza che rischia di far tornare il Medio Oriente all’incubo di cinque anni fa risale a lunedì, quando la Repubblica islamica ha annunciato di aver superato la quantità di scorte di uranio arricchito consentitole dai termini del Jcpoa, che lo fissano a 300 kg. Ma è il passo commesso domenica quello che ha segnalato al mondo che l’Iran è in procinto di superare il punto di non ritorno.
Ieri infatti scadeva l’ultimatum agli altri firmatari del Jcpoa esclusi gli Usa (Russia e Cina, dunque, ma soprattutto i tre europei, Gran Bretagna, Francia e Germania) stabilito esattamente due mesi prima dal presidente Hassan Rouhani: se entro sessanta giorni non avessero trovato il modo di compensare l’Iran per i mancati introiti derivanti dalle sanzioni imposte dall’America, aveva ammonito Rouhani, Teheran avrebbe ripreso ad arricchire l’uranio oltre la soglia di purezza definita dall’accordo (3,67%) e violando così una disposizione chiave del Jcpoa.
Era stato proprio Rouhani, nella giornata di mercoledì scorso, ad annunciare – con parole riportate dall’agenzia semi-ufficiale Tasmin – che l’Iran avrebbe di lì a poco “innalzato il livello dell’arricchimento al livello che vogliamo e di cui abbiamo bisogno”.
Alla vigilia della deadline, l’agenzia di stampa governativa IRNA aveva quindi fatto sapere, citando a supporto il viceministro degli Esteri Sayed Abbas Araqchi e il portavoce dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Atomica Behrooz Kamalwandi, che nella giornata di domenica sarebbe stata annunciata una decisione importante.
Che è arrivata puntuale nel corso della conferenza stampa tenuta da Araghchi ieri a Teheran: l’Iran riprende ad arricchire l’uranio oltre la soglia del 3,67%, al fine di rifornire di combustibile l’impianto di Bushehr, che lavora con uranio arricchito al 5%. La Repubblica Islamica inoltre si riserva di violare ulteriori disposizioni del Jcpoa in intervalli di tempo di sessanta giorni, pensati per dare ai garanti dell’accordo la possibilità di fare le loro contromosse, e salvarlo.
Le affermazioni di Aragchi hanno trovato ulteriore riscontro nelle dichiarazioni del portavoce del Dipartimento nucleare, Behrouz Kamalvandi: “entro poche ore”, ha spiegato durante una conferenza stampa Kamalvandi, le preparazioni tecniche per il nuovo livello di arricchimento sarebbero state completate “e comincerà l’arricchimento oltre il 3,67%”.
Appare significativa la chiosa fatta da Aragchi al suo stesso annuncio. “Questo”, ha spiegato, “viene fatto per proteggere l’accordo nucleare, non per annullarlo. (…) Si tratta di un’opportunità per i colloqui. E se i nostri partner non dovessero coglier(la), non dovrebbero avere dubbi sulla nostra determinazione ad abbandonare l’accordo”. Sono parole, quelle di Aragchi, rivolte soprattutto ai “paesi europei”, che non sono riusciti a “mantenere i loro impegni” e quindi “sono essi stessi responsabili” di quanto sta succedendo.
Così, quando il viceministro afferma che le “porte della diplomazia sono aperte, ma ciò che conta sono nuove iniziative che sono richieste”, è quanto mai evidente chi e cosa l’Iran avesse in mente nel prendere le ultime decisioni.
Quando nel pomeriggio, con un tweet, si è fatto sentire anche il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, le intenzioni iraniane sono diventate più che mai palesi. Le misure prese dall’Iran nelle ultime ore, ha spiegato infatti Zarif, sono tutte “reversibili”.
Today, Iran is taking its second round of remedial steps under Para 36 of the JCPOA. We reserve the right to continue to exercise legal remedies within JCPOA to protect our interests in the face of US #EconomicTerrorism. All such steps are reversible only through E3 compliance.
— Javad Zarif (@JZarif) July 7, 2019
Traducendo, l’Iran potrebbe anche ritornare sui propri passi qualora i destinatari dell’ultimo segnale bellicoso di Teheran prendessero decisioni finalizzate a venire incontro alle esigenze di un Paese la cui economia è letteralmente strangolata dalle sanzioni Usa, che per l’Iran equivalgono a “terrorismo economico”.
Vari media ricordavano ieri, a tal proposito, che l’Iran sta esportando attualmente da due a trecentomila barili di petrolio al giorno, meno di un terzo del livello raggiunto dopo la sigla del Jcpoa e prima che l’America si rimangiasse la parola.
Il mondo, in ogni caso, ha reagito agli annunci di Teheran dando mostra di compattezza. Dagli Usa è partita naturalmente la più ferma condanna. Parlando ai reporter mentre stava lasciando la sua residenza nel New Jersey per tornare a Washington, Donald Trump ha formulato ieri un sintetico ammonimento: “L’Iran farebbe meglio a stare attento”.
Il Segretario di Stato Mike Pompeo è ricorso invece a Twitter per chiarire che, in questo modo, l’Iran non fa altro che isolarsi ancor di più e attrarsi ulteriori sanzioni:
Iran’s latest expansion of its nuclear program will lead to further isolation and sanctions. Nations should restore the longstanding standard of no enrichment for Iran’s nuclear program. Iran’s regime, armed with nuclear weapons, would pose an even greater danger to the world.
— Secretary Pompeo (@SecPompeo) July 7, 2019
Dure anche le reazioni giunte dall’Europa. A Londra, il Foreign Office ha mobilitato il proprio portavoce per intimare all’Iran di “fermarsi immediatamente e invertire tutte le attività che esulando dai propri obblighi”, mentre il ministro Jeremy Hunti chiariva che “ci saranno serie conseguenze”
Dalla Francia, il presidente Emmanuel Macron, che il giorno prima aveva avuto una lunga telefonata col collega iraniano, ha condannato la “violazione” dell’accordo, mentre la Germania, attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, si è detta “estremamente preoccupata” e ha esortato l’Iran a “stoppare e invertire tutte le attività non in linea con i suoi impegni”.
E si è fatta sentire, infine, anche la voce della settima firma posta in calce al JCPOA, quella dell’Unione Europea, che tramite la portavoce Maja Kocijancic si è detta “estremamente preoccupata”. L’Ue, ha spiegato la portavoce, punta ora ad indire una riunione d’emergenza di tutti i sottoscrittori dell’accordo per valutare il da farsi.
Il punto, ora, è capire cosa faranno davvero le potenze che quattro anni fa pensavano di aver risolto, almeno temporaneamente, la questione del nucleare iraniano salvo veder naufragare subito dopo il loro capolavoro diplomatico, come amano considerare il Jcpoa, a causa delle picconate dell’amministrazione Trump.
Le alternative non sono molte, e la prima strada, indicata ieri da un furente primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (gran detrattore del Jcpoa), è reintrodurre le sanzioni Onu. È lo stesso Jcpoa peraltro a prevedere, in caso di violazioni iraniane, che scattino le cosiddette “snapback sanctions”.
Se si seguisse questa opzione, tuttavia, si tornerebbe di fatto alla situazione pre-accordo, con un Iran sotto sanzioni ma intento a perseguire i suoi disegni atomici senza più alcun vincolo esterno. E questo è proprio lo scenario che l’Europa vuole scongiurare.
In considerazione della pistola nucleare puntata adesso dall’Iran, Gran Bretagna, Francia e Germania potrebbero invece valutare la possibilità di imbastire un nuovo negoziato con Teheran. È tuttavia improbabile che tali trattative ricalchino i desiderata degli Usa, che pretendono che l’Iran metta sul tavolo, oltre che il proprio programma nucleare, anche quello balistico oltre che l’intera postura iraniana nello scacchiere mediorientale: è una possibilità che l’Iran ha seccamente e ripetutamente escluso.
Ed è parimenti difficile che da un nuovo negoziato scaturisca quel che l’Iran desidera di più: la garanzia europea che a Teheran continueranno ad affluire quei danari che le sanzioni Usa bloccano. Nessuno, nel Vecchio Continente, è disposto a sfidare l’egemonia del dollaro. Lo stesso strumento finanziario, Instex, che l’Ue ha messo in campo per continuare a commerciare con l’Iran non servirà praticamente a nulla: gli stringenti vincoli di Instex – che consentirà solo una sorta di baratto limitato ai beni umanitari – dimostrano che questa opportunità non potrà mai compensare le conseguenze delle sanzioni americane.
È dunque una navigazione in terra incognita, quella che attende l’Europa nelle prossime settimane. E non ci sarà davvero molto da attendere per capire se gli ultimi sviluppi della crisi con l’Iran preludono ad una nuova, inquietante corsa all’atomo in Medio Oriente, con lo spettro di un intervento militare americano (e israeliano) all’orizzonte, o se dal cilindro della diplomazia europea uscirà la carta magica capace di far svanire l’allarme.
TWEET DELLA SETTIMANA
Happy #IndependenceDay to our American cousins! We may have burnt the White House down (Sorry) and you may not like our tea (Unforgivable), but blood is thicker than water – we are unbreakable 👯♂️ @USArmy @USArmyEurope @BritishArmyUSA #SpecialRelationship #GlobalBritain pic.twitter.com/PQSNCFrcqY
— British Army (@BritishArmy) July 4, 2019
Il 4 luglio l’America ha festeggiato l’Indipendence Day, e questo è l’augurio zeppo di ironia ma anche di orgoglio anglosassone partito dall’account dell’esercito britannico.
NOTIZIE DAL MONDO
In Sudan si sblocca l’impasse e nasce un Consiglio congiunto militari-civili. Porta frutto la mediazione portata avanti dall’Unione Africana (AU) e dal primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, che potrebbe mettere la parola fine ad un lungo periodo di turbolenza cominciato con le proteste dello scorso dicembre per il carovita e culminato con la deposizione, dopo trent’anni di potere pressoché incontrastato, del presidente Omar al-Bashir. Come ha dichiarato alla stampa venerdì Mohamed Hassan Lebatt, mediatore dell’AU, l’accordo raggiunto in Etiopia tra i rappresentanti dell’Esercito e il cartello delle opposizioni prevede la nascita di un Consiglio supremo di 11 membri che resterà in carica per tre anni e tre mesi e sarà presieduto per i primi 18 mesi da un militare e per i successivi 21 da un civile. Militari e civili nomineranno ciascuno cinque membri del Consiglio, mentre l’undicesimo sarà indipendente. Secondo gli accordi, il primo capo del Consiglio sarà l’attuale leader del Consiglio Militare di Transizione (TMC), il generale Abdel Fattah al-Burhan. È stata concordata anche un’indagine indipendente sulla repressione violenta delle manifestazioni dello scorso 3 giugno, quando si stima abbiano perso la vita 128 persone. Per Siddig Yousif, veterano della politica sudanese che è stato uno dei protagonisti del negoziato, l’intesa raggiunta in Etiopia rappresenta il “primo passo nella costruzione di un Paese democratico”. Di “accordo complessivo” che “non esclude nessuno” ha parlato il n. 2 del TMC e capo delle Forze di Appoggio Rapido (responsabili dell’eccidio del 3 giugno), il generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come “Hameti”, considerato l’uomo più potente del Sudan da quando è uscito di scena Bashir. Non appena la notizia dell’accordo è divenuta di dominio pubblico, migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Omdurman, la città gemella di Khartom sul Nilo, per festeggiare pacificamente al grido di “Civile! Civile! Civile!”. Approfondisci su New York Times e BBC.
In vista delle sanzioni del Congresso Usa sul caso S-400, Ankara si accaparra pezzi di ricambio. A causa delle sanzioni che l’America potrebbe imporle a causa della sua decisione di acquistare il sistema russo di difesa anti-aerea, la Turchia avrebbe cominciato ad accumulare scorte per gli F-16 e altri sistemi d’arma made in Usa, hanno rivelato a Bloomberg due funzionari turchi. Secondo la bozza di risoluzione depositata alla Camera dei Rappresentanti, le sanzioni potrebbero chiudere i rubinetti delle forniture non solo degli F-16, ma anche degli elicotteri CH-47F Chinook e UH-60 Black Hawk. Ankara in ogni caso, confermano i funzionari, non solo tira diritto sull’acquisto, ma è interessata a produrre insieme a Mosca la nuova generazione di S-400. “La prima partita degli S-400 sarà consegnata in una settimana, massimo dieci giorni”, ha dichiarato lunedì il presidente Recep Tayyip Erdogan con parole riportate dal quotidiano Haberturk. “L’ho detto chiaramente a Trump” al G20 di Osaka, ha aggiunto il Sultano, “e l’ha detto anche Putin”. In Giappone, il capo della Casa Bianca si era effettivamente detto convinto che Erdogan fosse stato bistrattato dall’amministrazione di Barack Obama e che, sebbene l’affare degli S-400 costituisse “un problema”, gli Usa stanno “cercando soluzioni diverse”. Ma la flessibilità del presidente non trova riscontro presso gli altri rami del governo americano, inclusa la stessa Casa Bianca che, in una nota successiva al G20, ha “espresso preoccupazione” per l’accordo russo-turco. Lunedì il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti Usa, il deputato Eliot Engel, ha affermato che Erdogan “deve smetterla di fare giochini e scegliere tra l’Occidente e la Russia”. Per il parlamentare, l’acquisto dell’S-400 da parte di Ankara “mette a repentaglio la Nato e la nostra stessa sicurezza nazionale”. La Turchia, ha aggiunto, “non può gestire un sistema russo di difesa avanzata insieme a sistemi sensibili americani e della Nato. Il presidente Erdogan – ha concluso Engel – deve sapere che ci saranno conseguenze”. Approfondisci su Bloomberg.
La Cina testa missile balistici nel Mar Cinese Meridionale. Lo ha rivelato anonimamente alla stampa un ufficiale dell’esercito americano, a detta del quale l’episodio si sarebbe registrato lo scorso weekend. “Naturalmente”, ha spiegato il portavoce del Ministero della Difesa, colonnello Dave Eastburn, “il Pentagono era al corrente dei lanci di missili dalle strutture artificiali nel Mar Cinese Meridionale, vicino alle isole Spratly”. “Non ho intenzione di parlare”, ha proseguito Eastburn, “per conto di tutte le nazioni sovrane della regione, ma sono sicuro che il comportamento (della Cina) è contrario alle sue affermazioni di voler portare la pace nella regione, e ovviamente azioni come queste rappresentano azioni coercitive con cui si vogliono intimidire” quei Paesi che vantano rivendicazioni sul Mar Cinese Meridionale come Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam. Pechino non ha confermato i test missilistici, ma aveva reso noto che le sue forze armate sarebbero state impegnate in esercitazioni nel tratto di mare tra le isole Spratly e Paracel. Approfondisci su Reuters.
Il Consiglio di Sicurezza non condanna Haftar ma chiede il cessate il fuoco. Riunitosi d’urgenza mercoledì per discutere dello strike aereo che ha ucciso 53 persone, inclusi 6 bambini, in un centro di detenzione per migranti in Libia nella località di Tajoura e che è stato attribuito ad un jet delle forze che combattono al fianco del Maresciallo, il Consiglio di Sicurezza non ha trovato subito un’intesa su una dichiarazione congiunta a causa dell’opposizione degli Stati Uniti. Due giorni dopo, tuttavia, è stata emessa a nome di tutti e quindici i membri del Consiglio una dichiarazione che ricalca quella redatta dalla Gran Bretagna mercoledì e che esorta “tutte le parti” in conflitto in Libia a impegnarsi per una urgente “de-escalation” e ad arrivare quanto prima ad un “cessate il fuoco”. “Una pace duratura in Libia verrà solo da una soluzione politica”, sottolinea il Consiglio, che chiede anche a tutti gli Stati Onu di “rispettare pienamente l’embargo sulle armi” imposto sui belligeranti e “di non intervenire nel conflitto o prendere misure che possano esacerbarlo”. Viene espressa poi “profonda preoccupazione per la situazione umanitaria in Libia, che sta peggiorando”, mentre si sollecitano tutte le parti a “garantire il pieno accesso alle agenzie umanitarie”. Forte anche la preoccupazione per “le condizioni del centri di detenzione, che sono responsabilità del governo libico”. Approfondisci su Reuters e Al Jazeera.
SEGNALAZIONI: LE ELEZIONI IN GRECIA
Selezione di articoli della stampa estera sulle elezioni di ieri in Grecia.
- “Conservative party wins Greek election, ousts left-wing PM”: il servizio di Elena Becatoros e Derek Gatopoulos per l’Associated Press.
- “New Democracy party: Greeks turn to the right after years of left-wing austerity”: l’articolo di Anthee Carassava su The Times.
- “Greek conservatives score ‘clear victory’ in snap election”: l’articolo di Deutsche Welle.
- “Conservatives Regain Control in Greece”: l’articolo di Nektaria Samouli sul Wall Street Journal.
- “Greece election: Prime Minister Alexis Tsipras concedes defeat with New Democracy winning”: l’articolo di Sky News.
- “Greek elections: Mitsotakis promises change after New Democracy win”: l’articolo di BBC News.
- “Kyriakos Mitsotakis has long road ahead to complete Greek revival”: il commento di Ben Hall sul Financial Times.
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