Oltreconfine, la rassegna stampa internazionale di Policy Maker
OLTRECONFINE: ISRAELE UCCIDE A BEIRUT IL CAPO DI STATO MAGGIORE DI HEZBOLLAH
L’aviazione israeliana ha assassinato domenica a Beirut, nel quartiere di Dahiya considerato la roccaforte di Hezbollah, il comandante Haytham Ali Tabatabai, identificato da Israele come capo di stato maggiore militare del gruppo militante sciita libanese. Lo riporta il New York Times, per il quale l’attacco ha ucciso almeno 5 persone e ne ha ferite oltre 25, secondo quanto riferito dal ministero della Salute libanese. Hezbollah ha confermato la morte del comandante definendo Tabatabai un “martire” e leader di spicco; gli Usa lo consideravano responsabile delle forze speciali in Siria e Yemen, con una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Il raid rappresenta la più grave escalation dall’entrata in vigore del cessate il fuoco del novembre 2024, mediato dagli Usa dopo 13 mesi di guerra aperti dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e proseguiti con i lanci quotidiani di razzi di Hezbollah su Israele. Quel conflitto causò oltre 4.000 morti in Libano, un milione di sfollati e decine di migliaia di israeliani evacuati dal nord. Netanyahu ha giustificato l’operazione affermando che Tabatabai stava guidando la riorganizzazione militare di Hezbollah, violando il cessate il fuoco: “Non permetteremo che torni a costituire una minaccia”, ha dichiarato il premier israeliano citato dal Nyt. Israele ha intensificato negli ultimi mesi gli attacchi in Libano, accusando il gruppo di riarmarsi nonostante il ritiro formale dal sud. La reazione di Hezbollah è stata contenuta: il vicesegretario politico Mahmoud Kamati ha parlato di “nuova linea rossa” e di “inutilità degli accordi” con Israele, ma senza annunciare rappresaglie immediate, limitandosi a coordinarsi con lo Stato libanese. Il presidente libanese Joseph Aoun ha condannato invece l’attacco come rifiuto di ogni iniziativa di de-escalation da parte dello Stato ebraico.
REPUBLIKA SRPSKA, DODIK NON MOLLA: IL SUO DELFINO KARAN VINCE LE PRESIDENZIALI CON IL 51%
Come riferisce France 24, Sinisa Karan, candidato sostenuto dall’ex presidente Milorad Dodik, ha vinto le elezioni presidenziali anticipate di domenica nella Republika Srpska con il 50,89% dei voti contro il 47,81% del rivale Branko Blanusa (dato al 93% dei seggi scrutinati). L’affluenza è stata molto bassa, sotto il 36%, contro il 53% del 2022. Il voto è arrivato dopo la destituzione di Dodik ad agosto per aver ignorato le decisioni dell’Alto Rappresentante internazionale Christian Schmidt. Dodik, condannato a 6 anni di interdizione dai pubblici uffici, ha accettato la rimozione a ottobre; subito dopo gli Usa hanno revocato le sanzioni che lo colpivano dal 2017 insieme a quelle su Karan e altri collaboratori. Karan, 63 anni, ex ministro dell’Interno e fedelissimo di Dodik, guiderà la Republika Srpska per meno di un anno, fino alle elezioni generali dell’ottobre 2026. Dodik, pur fuori dalla carica, resta leader del partito SNSD, al potere da quasi 20 anni, e ha commentato, con parole citate da France 24: “Volevano togliere Dodik con un processo politico ingiusto… ora ne hanno due”. Il candidato dell’opposizione SDS Blanusa, professore di ingegneria elettrica, ha basato la sua campagna elettorale su accuse di corruzione al regime SNSD, ma non è riuscito a capitalizzare il malcontento. Per molti osservatori non c’era una vera differenza ideologica tra i due contendenti, entrambi percepiti come figure del sistema. Il risultato è letto come un referendum pro-Dodik e contro l’interferenza internazionale: Karan ha parlato, riferisce ancora France 24, di “decisivo ““No” a ogni straniero che vuole usurpare la volontà del popolo serbo”. Nonostante la crisi istituzionale che aveva portato il Paese al peggior livello di tensione dagli anni ’90, Dodik esce rafforzato: il suo potere reale, radicato nel partito, resta intatto e probabilmente crescerà ulteriormente.
CINA, PREZZI ALLE STELLE PER LA RUSSIA: +87% SUI BENI STRATEGICI
Uno studio del Bank of Finland Institute for Emerging Economies (Bofit) rivela che gli esportatori cinesi hanno aumentato sensibilmente i prezzi dei beni sottoposti a controlli all’export venduti alla Russia, con un +87% medio tra 2021 e 2024, contro un +9% per le stesse merci spedite altrove. L’incremento, spiega il Financial Times, è particolarmente marcato nel comparto “macchinari e apparecchi meccanici”, categoria che include molti prodotti critici per l’industria bellica russa. Per i cuscinetti a sfera cinesi, ad esempio, il valore delle importazioni russe è cresciuto del 76% in dollari dal 2021, ma il volume fisico è calato del 13%: l’intero aumento è quindi dovuto al rincaro dei prezzi. Anche in Turchia, rileva lo stesso studio, i prezzi dei beni sanzionati venduti alla Russia sono saliti (tra +25% e +55%), mentre sono rimasti stabili verso altri clienti. Su un campione di 14 paesi, il prezzo mediano dei beni soggetti a controllo dell’export è cresciuto del 75% verso la Russia, contro zero variazioni per i beni non controllati. Gli autori dell’indagine concludono che le sanzioni occidentali, pur non avendo bloccato del tutto l’accesso russo a componenti critiche, ne hanno reso l’importazione molto più costosa, limitando di fatto le capacità tecnologiche di Mosca. Un alto funzionario occidentale citato dal Financial Times osserva che se il prezzo di un bene aumenta dell’80%, la quantità acquistabile si dimezza quasi: un esito considerato “abbastanza buono”, spiega il funzionario. Il fenomeno sembra rafforzarsi nel tempo, probabilmente per l’enforcement più severo delle sanzioni, che permette agli esportatori di imporre premi sempre più alti ai clienti russi. Il Cremlino considera l’allentamento delle sanzioni obiettivo cruciale: nel piano di pace in 28 punti presentato la settimana scorsa emerge che la revoca verrà discussa “per fasi e caso per caso”. Pechino continua a negare di fornire armi letali a Mosca e si oppone alle sanzioni unilaterali che ostacolano il commercio sino-russo.

