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Le azioni di Trump fra Arabia Saudita, Israele e Polonia

Trump

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, la settimana al cardiopalma in Arabia Saudita apertasi con la destituzione del Ministro dell’Energia e chiusasi con un attacco a due impianti petroliferi Aramco.  

 

PRIMO PIANO: LA VIA CRUCIS DI ARAMCO VERSO L’IPO

È stata una settimana ad alta tensione per l’Arabia Saudita. Si è aperta domenica scorsa con un improvviso cambio della guardia al Ministero dell’Energia, dove è approdato – per la prima volta nella storia del Regno – un figlio del sovrano, il principe Abdulaziz bin Salman. E si è conclusa sabato con il clamoroso attacco, rivendicato dai ribelli yemeniti Houthi, agli impianti petroliferi di Aramco di Abqaiq e Khurais che, come ha dichiarato il nuovo ministro, hanno provocato “la temporanea sospensione della produzione” di ben 5,7 milioni di barili di petrolio, pari al 50% della produzione totale saudita e –  aggiungono Bloomberg e Politico – al 5% del totale della produzione mondiale:

 

Entrambi gli avvenimenti si collocano sullo sfondo di un tornante fondamentale per l’Arabia Saudita: l’IPO con cui sarà messo sul mercato, in una data ancora non annunciata ma che si sta avvicinando, il 5% delle azioni di Aramco. Si tratta di un’operazione fortemente voluta dall’uomo forte di Riad, quel principe Mohammad bin Salman (Mbs) che considera l’IPO il perno di una strategia complessiva di rilancio e diversificazione dell’economia saudita, denominata Vision 2030, per la quale ha bisogno di incassare da quell’operazione la somma più alta possibile, necessaria per mettere in sesto i disastrati bilanci del regno.

Ma tra le ambizioni di Mbs e la realtà c’è di mezzo un dato che è costato il posto al suo ministro dell’Energia dopo tre anni di onorato servizio: la quotazione del petrolio ben al di sotto delle aspettative.

Il cambio della guardia al ministero si spiega sopratutto così, ance se non arriva come un fulmine al ciel sereno: pochi giorni della destituzione, Falih era stato rimosso dall’incarico di presidente del board di Aramco, di cui era stato anche chief executive. In quella poltrona ora siede Yasir al-Rumayyan, che oltre a presiedere il fondo sovrano saudita è anche uno stretto consigliere di Mbs. Ma che la sorte di Falih fosse segnata lo si era capito anche prima, quando dal suo portafoglio erano state tolte le deleghe per le miniere e l’industria.

Secondo Forbes, che alla transizione al ministero saudita ha dedicato un lungo pezzo, le ragioni dell’uscita di scena di Falih sono tuttavia poco chiare.

Forbes ricorda che Abdulaziz è il terzo ministro dell’Energia ad entrare in carica nell’arco di poco più di tre anni. Prima di lui, e di Falih, c’era stato il lungo regno – 21 anni – di Al-Naimi, anch’egli “dimissionato” a sorpresa nel maggio 2016.

Naimi fu silurato per aver mantenuto ostinatamente al massimo livello le estrazioni dai pozzi sauditi, finendo per essere scaricato ingloriosamente quando la quotazione del petrolio aveva toccato i 30 dollari al barile.

Capita l’antifona, il suo successore partì all’attacco, diventando l’architetto del patto tra i Paesi OPEC e alcuni produttori non OPEC, come la Russia, messo in piedi tre anni or sono con lo scopo di tagliare in modo concertato la produzione e far risalire le quotazioni del greggio.

Nel dialogo perseguito con Mosca, Falih fu avvantaggiato dagli ottimi rapporti con la sua controparte russa Alexander Novak, che invece non poteva vantare Naimi. Grazie al sostegno di Putin, Falih potè così incassare il risultato sperato, imbarcando, insieme ai 14 membri dell’OPEC, dieci produttori non OPEC, che vararono un taglio congiunto della produzione di 1,2 milioni di barili al giorno, con l’accordo di tenerlo in vita fino al marzo 2020.

Le speranze riposte da Riad in questo inedito patto furono però presto deluse: il prezzo del petrolio non ha sperimentato il balzo atteso, con il Brent che ha raggiunto quota 61 alla vigilia delle dimissioni di Falih. Un aumento insufficiente, soprattutto se raffrontato alla parallela diminuzione della produzione di greggio del regno che, secondo i dati  dell’ultima S&P Global Platts survey, da 10,2 milioni di barili al giorno è scesa nell’agosto scorso a 9,77 milioni di barili.

In queste circostanze, sottolinea Forbes, ad essere a rischio è proprio l’IPO di Aramco e, in particolare, il desiderio di Mbs di arrivare all’ora X con una valutazione del colosso petrolifero di Stato pari a più di due trilioni di dollari. Per coronare questo sogno, il prezzo dovrebbe salire ad almeno 80 dollari al barile, e a detta di Forbes niente suggerisce che quest’obiettivo sia alla portata, nemmeno l’insediamento al Ministero dell’Energia di un veterano che è pienamente a suo agio nei circoli OPEC.

Abdulaziz viene infatti da una intera carriera nel settore. Dopo la laurea alla King Fahd University of Petroleum and Minerals, è entrato giovanissimo al ministero dell’Energia nelle vesti di consigliere, e dieci anni dopo è stato nominato vice ministro del petrolio, carica che ha ricoperto per quasi un decennio. Successivamente, ha prestato servizio come assistente ministro al petrolio fino a quando, nel 2017, è stato nominato ministro di Stato per gli affari energetici.

Abdulaziz si trova ora alla testa di un’azienda che ha perso nella prima parte di quest’anno il 12% dei proventi a causa dell’attuale prezzo del petrolio, pur restando in testa alla classifica delle società più profittevoli del pianeta, con un fatturato l’anno scorso pari a 111 miliardi di dollari, quasi il doppio di Apple.

Ma la strada di Abdulaziz comincia in salita, come ha testimoniato lo spettacolare attacco, avvenuto all’alba di sabato, agli impianti Aramco di Abqaiq, dove si trova la più grande raffineria del regno, e al pozzo di Khurais, che è il secondo più grande del Paese.  La notizia degli incendi divampati nei due siti ha ovviamente fatto subito il giro del mondo, insieme a varie immagini dei siti colpiti avvolti dalle fiamme:

https://twitter.com/qanatahrar/status/1172775191694512128?s=21

 

Poche ore dopo l’attacco, un portavoce dei ribelli Houthi dello Yemen, Yahia Sarie, si è presentato davanti alle telecamere dell’emittente satellitare del gruppo, al-Masirah, per rivendicare l’azione, spiegando che è stata condotta “con 10 droni”. Un attacco a sorpresa dunque, partito da un migliaio di chilometri di distanza, ma che gli americani in queste ore stanno mettendo in discussione, avanzando l’ipotesi che si sia trattato di missili da crociera partiti non dallo Yemen ma da un luogo più vicino come l’Iraq.

Ovvia, da parte di Washington, l’attribuzione della responsabilità all’Iran, alleato degli Houthi ma sopratutto nemico giurato dei sauditi. Nei tweet partiti nella giornata di domenica, il presidente Usa Trump e il Segretario di Stato Pompeo hanno puntato il dito su Teheran, e nel cinguettio del tycoon c’è anche un accenno niente affatto larvato a possibili ritorsioni.

https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1173368423381962752?s=21

La natura degli obiettivi colpiti sabato sa ben evidenzia la gravità dei fatti. Abqaiq si trova a 60 km a sudovest del quartier generale di Aramco a Dhahran e ospita la più grande raffineria del mondo, dove si lavora il greggio estratto dal colossale campo di Ghawar che viene poi trasferito ai terminal di Ras Tanura e Juaymah. Qui, per citare i dati di luglio, si producono quotidianamente ben 7 dei 9,65 barili di petrolio prodotti dall’Arabia Saudita. Ed è qui che vive buona parte del personale occidentale di Aramco.

Si tratta, dunque, di un obiettivo quanto mai appetibile per chiunque voglia provocare dei mal di testa a Riad. Tutti, per inciso, ricordano come un fallito attentato qaedista nel 2006 proprio qui provocò un repentino aumento del prezzo del petrolio di due dollari.

Il campo di Khurais si trova invece a 160 km dalla capitale, è operativo da dieci anni ed è il secondo più grande del paese dopo Ghawar, con riserve accertate di venti miliardi di barili. Qui ogni giorno si producono 1,5 milioni di barili di petrolio.

Per tutte queste ragioni, gli analisti finanziari ieri erano in fibrillazione per quanto sarebbe potuto succedere oggi a mercati aperti. Gli esperti sentiti da Reuters scommettevano su un immediato aumento di 5-10 dollari, con la prospettiva di un balzo a 100 dollari qualora l’Arabia Saudita non riuscisse a ripristinare tempestivamente i livelli produttivi precedenti.

E se per Ayham Kamel di Eurasia Group l’aumento potrebbe contenersi a 2 o 3 dollari, bisogna tenere conto di un secondo ordine di considerazioni: vista la “portata” dell’attacco messo a segno dagli Houthi, osserva Khamel, è quanto mai probabile che i mercati spingeranno per includere nel prezzo  anche un “premio al rischio geopolitico”. Ma è l’ultima osservazione di Kamel quella che preoccupa di più la corte dei Saud: “gli attacchi”, sottolinea l’analista, “potrebbero complicare i piani dell’IPO di Aramco a causa degli accresciuti rischi alla sicurezza e al potenziale impatto sulla sua valutazione”.

È dello stesso avviso anche il Wall Street Journal, che in un articolo di ieri spiegava che “l’attacco potrebbe portare ad un premio sui prezzi del petrolio che è stato assente per lungo tempo a causa di una certa compiacenza. Anzi, i trader potrebbero ora essere costretti a prendere in considerazione il nuovo rischio (derivante dalla minaccia) di far mancare improvvisamente nel mercato non centinaia di migliaia ma milioni di barili”..

L’attacco di sabato, insomma, sembra guastare i piani di Mbs e di Aramco che, come osserva Bloomberg, stavano accelerando. Giusto la settimana scorsa, ricorda Bloomberg, decine di banchieri di società come Citigroup e JPMorgan Chase si sono incontrati per studiare le prossime mosse. Ha buon gioco allora Ayham Kamel di Eurasia a dire che tutto quel che è successo “potrebbe complicare i piani dell’IPO”. E rovinare l’umore del nuovo ministro saudita dell’Energia.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

Continuano ad arrivare in Turchia i pezzi del sistema russop di difesa anti-aerea S-400 che hanno provocato l’ira di Washington e l’espulsione della Turchia dal programma JSF. Il presidente turco Erdogan ora però fa sapere che a margine dell’Assemblea Generale Onu parlerà con Trump dell’acquisto del sistema rivale made in Usa Patriot.

 


NOTIZIE DAL MONDO

 

Nuovo assist elettorale di Trump a Bibi. A pochi giorni dall’apertura delle urne in Israele, Donald Trump decide di appoggiare di nuovo il suo amico Benjamin Netanyahu – lo aveva fatto anche durante la precedente tornata elettorale riconoscendo la sovranità israeliana sulle alture del Golan –  scrivendo un tweet nel quale riferisce di aver discusso con lui al telefono “la possibilità di portare avanti un Trattato di Mutua Difesa tra gli Stati Uniti ed Israele che ancorerebbe ancor di più la straordinaria alleanza tra i nostri due paesi”. Il cinguettio presidenziale si chiude con la proposta al premier israeliano di “continuare questa discussione dopo le elezioni quando ci incontreremo alla fine del mese alle Nazioni Unite” per l’Assemblea Generale. Il destinatario ha molto apprezzato e risposto sullo stesso canale che attende di vedere il suo collega al Palazzo di Vetro “per far avanzare uno storico Trattato di Difesa tra gli Stati Uniti ed Israele” che, ha sottolineato il premier, “non ha mai avuto un miglior amico alla Casa Bianca”. Poche ore dopo, Netanyahu stava già usando l’asso ricevuto dal presidente Usa negli ultimi scampoli di campagna elettorale. Intervistato sabato sera dall’emittente Israel Channel 12, il premier uscente si è rivolto agli elettori dicendo di “avere bisogno dei vostri voti” per far incassare al paese “un patto difensivo che ci garantirà la sicurezza per secoli”. A non gradire l’intromissione è stato, come riferisce NBC, il principale rivale di Netanyahu, Benny Gantz, che ha definito l’idea di Trump un “grave errore” che minerebbe l’autonomia militare dello Stato ebraico. “Non è questo ciò che vogliamo”, ha detto il leader della coalizione Blu e Bianca ad una conferenza a Gerusalemme. “Non abbiamo mai chiesto a nessuno”, ha proseguito Gantz, “di morire per noi. Non abbiamo mai chiesto a nessuno di combattere per noi. E non abbiamo mai chiesto a nessuno il permesso di difendere lo Stato di Israele”.

 

32 F-35 per la Polonia. La notifica al Congresso della vendita a Varsavia degli esemplari del jet della Lockheed Martin, per un controvalore di 6,5 miliardi di dollari, è stata trasmessa martedì dall’amministrazione Trump. La notifica conclude un iter iniziato ad aprile, quando – come ricorda Reuters –  il Pentagono aveva informato il Parlamento che stava considerando di mettere gli F-35 a disposizione delle forze armate di un membro Nato oltre che di quelle di Grecia, Romania, Spagna e Singapore. Il possesso degli F-35, ha osservato il Dipartimento della Difesa Usa in un comunicato, “migliorerà il contributo dell’aviazione polacca alle operazioni della Nato e/o di altre coalizioni, migliorerà le capacità di auto-difesa della Polonia, e contribuirà all’obiettivo della Polonia di migliorare le sue capacità militari perfezionando al tempo stesso l’interoperabilità con gli Usa, i membri Nato e altri alleati”. L’arrivo dei nuovi jet consentirà inoltre di mandare progressivamente in pensione la vecchia flotta aerea polacca composta da Mikoyan MiG-29 e Sukhoi Su-22. La vendita degli F-35 rappresenta una sorta di premio, da parte di Washington, per un alleato che è tra i pochi, all’interno dell’Alleanza Atlantica, a spendere il 2% del Pil nel comparto Difesa: i 6,5 miliardi investiti negli F-35 rappresentano una buona fetta degli 11,9 miliardi che il Paese intende allocare per l’anno corrente nella spesa militare. La Polonia, inoltre, esibisce un altro dato virtuoso: rispetta l’obiettivo, fissato dalla Nato, di spendere più del 20% del suo budget della Difesa nell’acquisto di nuovo equipaggiamento.

 

Inaugurato il primo oleodotto India-Nepal. Come racconta Al Jazeera, dai rispettivi uffici a New Dehli e Kathmandu il primo ministro indiano Narendra Modi e il collega nepalese Khadga Prasad Oli hanno messo simultaneamente in funzione il primo oledotto che attraversa i due Paesi e consentirà al Nepal di ricevere forniture ininterrotte di prodotti petroliferi dal suo vicino meridionale, che è il suo unico fornitore tramite l’azienda statale India Oil Corporation, che vende i propri prodotti alla Nepal Oil Corporation, di proprietà del governo. Lunga 69 chilometri, l’infrastruttura trasporterà benzina, diesel e kerosene, per un totale di 69 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi che saranno messi in commercio a prezzo scontato. “Questo”, ha affermato Modi, “è il primo oleodotto transfrontaliero nell’Asia meridionale, ed è stato completato a tempo record”, con i lavori di realizzazione completati ben prima della data di scadenza. “Non solo consentirà di risparmiare tempo”, ha sottolineato Oli, “ridurre i costi, diminuire il traffico stradale e ridurre l’inquinamento (…) ma farà da battistrada all’espansione di analoghi oleodotti nel resto del paese”. Oli ha anche annunciato la contestuale riduzione di due rupie (0.023 dollari) del prezzo della benzina e del diesel. La costruzione dell’oleodotto è stata dettata anche dalla necessità di evitare che si ripeta quanto successo nel sud del Nepal nel 2015, quando le proteste di alcuni gruppi etnici per la riforma della costituzione costrinse il governo a chiudere il confine con l’India per parecchi mesi, con ricadute negative sulle forniture di petrolio. Le manifestazioni messe in scena dal gruppo etnico Madhesi crearono anche delle frizioni tra il Nepal e l’India, che appoggia le rivendicazioni del gruppo. Ci sono voluti anni perché le relazioni tra i due Paesi volgessero di nuovo al bello, e gli attuali primi ministri si sono adoperati per un rapido ritorno alla normalità. Durante la cerimonia di inaugurazione dell’oleodotto, Oli ha invitato Modi a visitare l’India, ricambiando la visita da lui fatta in Nepal l’anno scorso.

 


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