Stephen Miller, un alto consigliere del presidente Trump, ha puntato il dito contro l’India: aiuterebbe la Russia nello sforzo bellico. Intanto, i dazi di Trump stanno avendo un effetto protezionistico anche in Cina e la Turchia si sta usando l’arma della difesa per avvicinarsi, sempre di più, al continente europeo. Il Regno Unito, infatti, ha siglato un accordo preliminare con la Turchia per la vendita di un certo numero di esemplari di caccia Eurofighter Typhoon. Oltreconfine, la rassegna geopolitica di Policymakermag
Dalle accuse degli Stati Uniti all’India per i suoi rapporti con la Russia, all’intesa tra Regno Unito e Turchia sugli Eurofighter, fino alla revisione da parte di Pechino della strategia “China plus one” sotto la pressione dei nuovi dazi americani. Gli equilibri globali attraversano una fase di forte instabilità dove la guerra aperta si affianca a frizioni commerciali e accordi strategici che ridefiniscono rapporti di forza.
MILLER ACCUSA L’INDIA DI SOSTENERE LO SFORZO BELLICO RUSSO
Come riferisce Reuters, un alto consigliere del presidente Trump, Stephen Miller, ha accusato l’India di finanziare indirettamente la guerra russa in Ucraina attraverso l’acquisto di petrolio da Mosca. In un’intervista andata in onda su Fox News la scorsa domenica, Miller ha dichiarato: “Ciò che [Trump] ha detto chiaramente è che non è accettabile che l’India continui a finanziare questa guerra acquistando petrolio dalla Russia”. Il consigliere ha aggiunto, sottolineando la gravità della situazione, che “le persone rimarranno scioccate nell’apprendere che l’India è praticamente alla pari con la Cina nell’acquisto di petrolio russo. Questo è un fatto sorprendente”. Le critiche di Miller, tra le più dure dell’amministrazione Trump verso un partner chiave nell’Indo-Pacifico, riflettono l’escalation delle pressioni degli Stati Uniti su Nuova Delhi per interrompere gli acquisti di energia russa. L’India, secondo Reuters, è il secondo maggior acquirente di petrolio russo dopo la Cina, con importazioni che rappresentano circa il 35-40% del suo fabbisogno, rispetto a solo l’1% prima del conflitto ucraino nel 2022. L’ambasciata indiana a Washington non ha risposto immediatamente, ma fonti governative indiane hanno confermato a Reuters che Nuova Delhi continuerà a comprare petrolio da Mosca nonostante le minacce di sanzioni. In risposta, gli Stati Uniti hanno imposto dal 1° agosto una tariffa del 25% sui prodotti indiani, a causa degli acquisti di energia e attrezzature militari dalla Russia, con Trump che ha minacciato tariffe fino al 100% se l’India non cesserà tali transazioni, a meno che Mosca non raggiunga un accordo di pace con l’Ucraina. Miller ha mitigato le critiche sottolineando la “straordinaria” relazione tra Trump e il primo ministro indiano Narendra Modi. Le relazioni economiche tra India e Russia si sono intensificate dall’inizio della guerra in Ucraina. L’India ha aumentato esponenzialmente le importazioni di petrolio russo, passando da 68.000 barili al giorno nel gennaio 2022 a un picco di 2,15 milioni nel maggio 2023, secondo dati di Kpler citati da Reuters. Questo petrolio, acquistato a prezzi scontati e non soggetto a sanzioni dirette, fornisce entrate significative al Cremlino, nonostante il price cap imposto dall’UE. Inoltre, la Russia rimane il principale fornitore di armi dell’India, rappresentando il 38% delle sue esportazioni di armamenti tra il 2020 e il 2024, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute. Tuttavia, l’India mantiene una posizione neutrale nel conflitto, bilanciando i legami storici con Mosca e la crescente partnership strategica con gli Stati Uniti, come evidenziato dalla relazione tra Modi e Trump. Le tariffe Usa mirano a esercitare pressione economica, ma l’India difende la sua sovranità economica, con il ministro del Petrolio Hardeep Singh Puri che ha sottolineato come gli acquisti indiani abbiano stabilizzato i prezzi globali del petrolio.
ACCORDO UK-TURCHIA SUGLI EUROFIGHTER
Il Regno Unito ha siglato un accordo preliminare con la Turchia per la vendita di un certo numero di esemplari di caccia Eurofighter Typhoon, in un’intesa multimiliardaria a lungo ostacolata da tensioni politiche tra Ankara e i suoi alleati all’interno dell’Alleanza Atlantica. L’annuncio, di cui ci rende conto Bloomberg ma che era stato reso noto per primo da Der Spiegel, è stato rilasciato mercoledì dal Ministero della Difesa turco a Istanbul, e sottolinea l’ambizione condivisa di finalizzare rapidamente gli accordi necessari per completare la transazione. L’approvazione è arrivata dopo che il Consiglio di Sicurezza tedesco, precedentemente contrario alla vendita a causa delle frizioni tra Turchia e Grecia, ha autorizzato la fornitura di 40 jet Eurofighter, come confermato da un portavoce del Cancelliere Friedrich Merz. Secondo una fonte anonima vicina alla questione, il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis è stato informato della decisione. I dettagli finanziari dell’accordo non sono ancora stati resi pubblici, ma un’offerta iniziale ricevuta dalla Turchia all’inizio dell’anno riguardava almeno 20 aerei per un valore stimato di 5 miliardi di euro (circa 5,87 miliardi di dollari). Durante il processo di revisione, la Turchia ha fornito garanzie che i velivoli saranno utilizzati esclusivamente nell’ambito della solidarietà Nato, escludendo qualsiasi impiego contro altri membri dell’alleanza, come la Grecia. Questo accordo rappresenta dunque un passo significativo verso un rafforzamento della cooperazione difensiva tra la Turchia e i suoi alleati occidentali. L’Europa tra l’altro, dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, sta cercando di potenziare la propria industria della difesa, riducendo la dipendenza dagli Usa. Oltre al deal per gli Eurofighter, Ankara sta negoziando con Washington per l’acquisto di nuovi caccia F-16, di cui è il secondo maggior operatore al mondo, ma anche di F-35, dal cui programma è stata tuttavia espulsa nel 2019 dopo aver acquistato dalla Russia il sistema di difesa anti-missile S-400. L’Eurofighter è un progetto congiunto tra BAE Systems Plc (Regno Unito), Airbus SE (Germania) e Leonardo SpA (Italia): la produzione dei velivoli destinati alla Turchia avverrà nel Regno Unito utilizzando componenti forniti dalla Germania.
LA CINA RIVALUTA LA STRATEGIA ‘CHINA PLUS ONE’ SOTTO LA PRESSIONE DEI DAZI USA
Come scrive il Financial Times, i nuovi dazi Usa sugli hub asiatici e le restrizioni sul “transshipment” stanno spingendo gli esportatori cinesi a riconsiderare gli investimenti in stabilimenti all’estero, ridisegnando le catene di approvvigionamento in Asia. Negli ultimi anni, molte aziende cinesi avevano adottato la strategia “China plus one”, investendo miliardi in paesi del sud-est asiatico per ridurre l’esposizione ai dazi introdotti durante la prima guerra commerciale di Trump con Pechino. Tuttavia, le recenti misure di Washington, che hanno alzato le tariffe sui beni cinesi al 30% e imposto dazi dal 10% al 40% su altri paesi asiatici, stanno erodendo i margini di profitto e gli incentivi a delocalizzare la produzione. Una tariffa del 40% sui beni “transhipped” dalla Cina agli Usa tramite paesi terzi ha ulteriormente complicato la sostenibilità degli investimenti esteri. Secondo Louise Loo di Oxford Economics, citato dal Financial Times, la strategia “China plus one” è ormai sotto stress, con molte aziende che potrebbero tornare a produrre in Cina a causa degli elevati costi di trasferimento in nuovi mercati. Ad esempio, Minyuan Footwear, che ha aperto uno stabilimento in Cambogia, registra esitazioni dai clienti Usa per via dei dazi al 19%, mentre il Vietnam, con tariffe al 20%, emerge come concorrente. Aziende come Wynnewood Corp valutano uno spostamento parziale in Indonesia, ma le restrizioni sul transshipment e i costi di trasferimento dei processi produttivi riducono di molto i benefici. In settori come i tessuti di alta gamma, la Cina mantiene un vantaggio tecnologico insuperabile, rendendo improbabile la delocalizzazione. Produttori come Zhao Fen, rimasti in Cina, si dicono soddisfatti, poiché i dazi su beni a basso costo hanno un impatto minimo sulla domanda Usa. Tuttavia, sottolinea ancora il quotidiano della City, chi ha investito all’estero lamenta perdite di efficienza e flessibilità, valutando un ritorno in Cina se le differenze tariffarie si assottigliano.