Skip to content

“L’Europa è un mammut. Tra Usa e Cina una nuova guerra fredda”. Parla Torlizzi (consigliere del Ministro della Difesa)

Il corso neoimperialista della politica estera statunitense, il fallimento delle politiche green, l’elefantiaca burocrazia europea e l’urgenza di un piano nazionale delle materie strategiche. L’intervista a Gianclaudio Torlizzi, consigliere del Ministro della Difesa e Fondatore di T-Commodity

La vivacità  del nuovo corso, politico e geopolitico, statunitense trova rappresentazione nelle dichiarazioni schiette e prive di fronzoli del presidente Donald Trump. “Make America Great Again” non è solo uno slogan da campagna elettorale ma un’indicazione politica che il presidente intende perseguire costituzionalmente ma a mani, tendenzialmente, libere. L’avversario è la Cina, il gigante asiatico che in questi decenni è riuscito a prosperare.

E la litigiosa, e sempre più vecchia, Europa? Il Green deal doveva essere un moto di riscossa, un’eccellenza made in Eu che avrebbe dovuto caratterizzare il nostro continente e liberarlo dalla dipendenza energetica nei confronti del petrolio. Ma l’idea, etica e coraggiosa, si è scontrata con la realtà di un continente povero di materie prime critiche che deve, dunque, andare a cercare altrove alimentando una nuova forma di dipendenza.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con Gianclaudio Torlizzi, consigliere del Ministro della Difesa e Fondatore di T-Commodity.

La Premier Giorgia Meloni in conferenza stampa ha rassicurato sul fatto che non vedremo un intervento armato degli Usa né in Canada né in Groenlandia e che le dichiarazioni sopra le righe del presidente Trump erano parte di un dialogo a distanza tra grandi potenze. Perché Cina e Usa sono interessate alla Groenlandia? 

Per due motivi: innanzitutto per la ricchezza mineraria dell’area, di metalli in terre rare di cui la Groenlandia è veramente molto, molto ricca. Quindi c’è un tema legato alle risorse e noi sappiamo che uno dei vulnus principali degli Stati Uniti in questa guerra fredda contro la Cina è proprio dato dal tema delle materie prime. Gli USA sanno benissimo che devono recuperare quel gap nei confronti della Cina per uscire a riuscire a vincere questa guerra o comunque per poter dialogare ad armi pari con i cinesi. Poi c’è il tema della rotta artica. Lo scioglimento dei ghiacciai e i problemi che continueranno a esistere nel Canale di Suez la renderanno fondamentale per il commercio. E in particolare la rotta artica è quella che permetterà alla Russia e alla Cina di poter continuare a commerciare con il resto del mondo.

Ci sono altri paesi interessati a quei territori oppure ce ne sono altri che ingolosiscono di più?

Chiaramente l’Europa, al momento, è uno spettatore in questa competizione tra le due superpotenze, non abbiamo i mezzi e non abbiamo neanche la mentalità che oggi serve per poter sopravvivere in questo nuovo contesto storico. Non vedo, quindi, come l’Europa possa imporre attivamente una sua visione in questo grande gioco tra superpotenze. Tra le altre aree interessanti possiamo dire che sicuramente gli americani punteranno al Sud America che è particolarmente ricco di minerali e credo che l’intenzione della grande strategia americana sia di imporre la sua influenza su tutto il continente americano. Cioè serrare i ranghi, accorciare la catena di comando e avere influenza sull’intero continente americano: dall’Alaska fino all’Argentina.

Quindi le dichiarazioni di Trump non sono delle boutade?

No, in Italia le abbiamo interpretate male. Le dichiarazioni di Trump vanno prese molto sul serio, perché gli USA ormai hanno intrapreso un nuovo corso, neoimperialista e che impone, secondo me, una lettura della realtà completamente diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Il problema è che l’Europa fa fatica a leggere questa nuova realtà e si tende a leggere queste uscite di Trump come esagerazioni. Ma questo perché? Perché manca la capacità di lettura di un contesto da guerra fredda, l’abbiamo completamente perso e quindi tutto quello che esula dalla lettura di questi fenomeni lo classifichiamo come folle o come privo di senso, come uno scherzo. Categorizzazioni tipiche di società in declino come la nostra.

Per quanto riguarda la politica energetica di Trump che dovrebbe vedere un nuovo rilancio dell’industria petrolifera, in termini di relazioni esterne cosa ci dovremo aspettare?

Bisogna prima capire come e se Trump riuscirà effettivamente nell’obiettivo di aumentare la produzione interna, perché alla fine gli operatori americani sono dei privati e quindi hanno bisogno di prezzi elevati dell’energia per aumentare la produzione. Chiedere di aumentare la produzione per portare giù i prezzi la vedo più dura. Quindi questo è il primo elemento che andrà monitorato. Sul lato della politica estera, gli americani faranno leva, Trump in particolare, sul suo buon rapporto con la leadership Saudita per controbilanciare eventuali sanzioni nei confronti dell’Iran che è, al momento, l’ultimo ostacolo al processo di stabilizzazione del Medio Oriente.

Nell’era Trump non mi aspetto particolari sconvolgimenti nel mercato del petrolio in termini di prezzi, vedo dei fondamentali che sono tendenzialmente bilanciati ma con delle crescenti restrizioni sul lato dell’offerta perché, come abbiamo visto anche l’ultimo pacchetto sanzionatorio nei confronti della Russia, le tensioni sull’offerta rimangono forti. Poi è chiaro che il vero game changer, il vero cambio di paradigma, si otterrebbe se si arrivasse a un congelamento del conflitto tra Russia e Ucraina, allora lì ci potrebbe essere qualche impatto maggiore in termini di prezzi, però poi bisognerà vedere quali saranno i termini dell’accordo.

In un articolo per Il Riformista lei scrive: “Una delle principali preoccupazioni riguarda il deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Cina. Mentre Washington aumenta le restrizioni commerciali e tecnologiche nei confronti di Pechino, la Cina rafforza i legami con il Global South e consolida la sua posizione come leader economico in Asia. Questa rivalità ha implicazioni dirette per l’Italia”. Quali sono queste implicazioni?

Il tema è che in un contesto di guerra fredda sia gli Stati Uniti ma anche la Cina stanno accorciando la catena di comando e sono interessati a creare delle aree di paesi amici con cui commerciare, con cui fare accordi, rifornirsi di materie prime. La Cina sta facendo la stessa cosa, cercando di attirare a sé quei paesi che oggi noi non consideriamo con la giusta attenzione. L’Italia in che maniera può essere danneggiata? Noi dovremmo ripensare ai nostri mercati di sbocco e ai nostri canali di approvvigionamento, perché quelli che oggi consideriamo come pilastri della nostra proiezione commerciale, rischiano di esserlo molto di meno. L’Italia ancora dipende molto dalla componentistica cinese. Non è detto che in futuro la componentistica cinese continuerà ad arrivare senza ostacoli o senza dei dazi aggiuntivi, per esempio.

L’Italia, come sappiamo, ha un grande surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti. Ecco, questo surplus deve essere ridotto ma non è detto che sia ridotto in termini assoluti. L’Italia può dirottare quelle esportazioni verso altri paesi, ad esempio il Sud America. Quindi, in questo nuovo contesto storico, l’Italia non può pensare di rimanere ferma, sperando cristianamente che il domani sarà migliore rispetto alla giornata di oggi. Deve prendere, secondo i nostri limiti, il toro per le corna e rimodulare completamente la sua politica estera, commerciale e industriale, per adattarsi nella maniera più veloce possibile a questo contesto.

Per l’Italia sarebbe più conveniente porsi sotto l’ombrello europeo oppure agire, per quanto possibile, con le mani libere?

L’ombrello europeo non esiste, io non vedo un ombrello europeo. Vedo, invece, un’Europa che si sta sfaldando, sempre più ininfluente sul piano economico e geopolitico. Innanzitutto, l’Italia deve tutelare i propri interessi. Auspicabilmente, sono gli stessi interessi europei ma non necessariamente. Faccio un esempio, se la Germania decide di auto-suicidarsi con una politica energetica folle, di spegnimento delle centrali nucleari, di totale affidamento alle energie rinnovabili e quindi con conseguente collasso del comparto dell’auto e della chimica, questo non vuol dire essere europeisti ma essere suicidi.

Quindi l’Europa deve prima fare chiarezza su quali sono i suoi obiettivi e al momento non sono obiettivi di crescita, sono obiettivi di iper-regolamentazione. Questo, secondo me, non è il futuro dell’Italia che, secondo me, deve sganciarsi da questa visione finché non ci sarà un cambio di visione politica in Europa. Nello sganciarsi deve sempre più, a mio avviso, agganciarsi agli Stati Uniti, perché, secondo me non pagherebbe avere una politica equidistante tra Stati Uniti e Cina.

Una rimodulazione della politica economica, commerciale ed energetica europea non potrebbe arrivare dal progetto di allargamento dell’Unione Europea?

L’Europa già non funziona in 27, quindi non capisco perché dovrebbe funzionare meglio se allarghiamo il numero. Uno dei problemi dell’Europa è aver allargato il numero dei paesi membri, che oggi rende impossibile il funzionamento. In un contesto in cui serve avere una catena di comando corta, la catena europea è talmente lunga che non si vede una fine. Abbiamo troppi paesi diversi con interessi a volte antitetici tra loro.

Abbiamo paesi fortemente manifatturieri come l’Italia, come la Germania a paesi votati esclusivamente al settore dei servizi, come gli scandinavi che però con il green hanno ucciso l’industria europea. Paesi che sul green, e sui relativi sussidi, hanno costruito la loro forza e che quindi hanno mantenuto e vogliono mantenere dei forti legami con la Cina, penso alla Svezia e alla Spagna, e paesi manifatturieri che giustamente sono preoccupati dall’invasione di export da Pechino. Fare sintesi tra 27 paesi è un obiettivo irraggiungibile. Finché la globalizzazione ha tenuto, l’Europa è riuscita a sopravvivere, anche attraverso l’austerità. L’Italia ne è un esempio. Ma anche accantonando questo discorso, in un contesto di globalizzazione, di frammentazione e di guerra fredda, è in realtà l’Europa è un mammut che non riesce a gestirsi. Sono personalmente molto pessimista sulle prospettive future dell’Europa.

È pessimista anche nei confronti del Green Deal e del progetto di transizione energetica?

Vorrei esserlo ma poi vedo in realtà che l’Europa continua imperterrita ad andare avanti. In tempi non sospetti, quattro anni fa, ho scritto un libro, “Materia rara” (ed.  Guerini e associati), in cui denunciavo gli squilibri che le politiche climatiche europee avrebbero esercitato sul comparto energia e sulle materie prime. Son passati cinque anni, si è fatto molto dibattito, c’è una crescente disillusione sul Green in salsa europea però non si riesce a intervenire sugli impianti normativi. L’ultima ciliegina è il CBAM, la Carbon Board Adjustment Mechanism che entrerà in vigore nel 2026 e che darà la mazzata finale a quel poco di industria europea che è rimasta.

Quindi, si andrà a bloccare l’import di materie prime dei paesi extra UE, lasciando completamente libera alla concorrenza estera i prodotti finiti. Quindi c’è uno scollamento dalla realtà veramente preoccupante e folle che noi analisti indipendenti denunciamo da tanti anni. Però, alla fine non si riesce a incidere in maniera importante perché c’è un gruppo di paesi nordici che invece rimane fortemente pro-green, c’è una parte anche dell’opinione pubblica tedesca che rimane fortemente a favore. Questo, probabilmente, nasce da un benessere eccessivo che si è sviluppato negli ultimi decenni e che fa credere alle persone che il progresso arrivi dall’alto ma non è così e gli americani lo stanno capendo.

La transizione energetica climatica che l’Ue ha intrapreso necessita di materie prime non presenti nel nostro territorio. Quali sono le materie prime più critiche delle quali il nostro continente è carente e di cui, quindi, ha più necessità?

In realtà ci sono tre categorie di criticità. C’è la criticità legata alla transizione energetica e che quindi vede metalli come litio, il rame, il nichel, la grafite, funzionali a una maggiore indipendenza sul lato delle tecnologie green, alla costruzione di batterie, di pannelli solari, di pale eoliche e così via. Poi però c’è un’altra criticità legata ai metalli strategici per la difesa, di cui nessuno parla.

Quello che è ancora più strategico oggi per il paese è la costruzione di un carro armato, di un aereo, di un missile. Questo è molto più strategico perché in un contesto di guerra fredda oggi tutto può accadere. L’elemento deterrenza è l’elemento che può garantire la pace. Se non abbiamo capacità di difesa, alimentiamo la guerra. Questo è un concetto che in Italia si fa fatica a far passare. I metalli strategici per il comparto della difesa sono tanti, penso al titanio o all’antimonio.

Poi c’è un tema legato alla strategicità della materia prime per il singolo paese, quello che è strategico per l’Italia non è detto che sia strategico per la Germania o per la Francia. Quindi c’è da fare una riflessione sul tema della carenza di minerali e prodotti raffinati. E poi c’è da capire che i materiali possono essere strategici su più ambiti: ambientale, difesa o industriale. Se non arriva più alluminio nel paese si blocca non solo la produzione di alcune applicazioni militari, ma si blocca anche l’industria civile. Ecco perché è necessario che si ponga mano a un piano di sicurezza nazionale sulle materie prime.

Il Ministero della Difesa sta portando avanti questa battaglia che è fondamentale per il Paese, cioè capire cosa è strategico per l’Italia. Poi, se c’è condivisione con altri paesi è un bene e questo può portare a sviluppare progetti bilaterali o trilaterali o anche europei. Ma se aspettiamo che Bruxelles metta mano alla questione passeranno decenni.

Leggi anche: Inauguration Day, come funziona la cerimonia di insediamento e cosa farà Trump nei primi 100 giorni

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Torna su