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Nucleare, riprende e si arena subito il negoziato Usa-Corea del Nord

Kim Trump

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, i colloqui sul nucleare a Stoccolma tra l’inviato degli Usa e quello della Corea del Nord conclusisi con un nulla di fatto. Nella sezione “notizie dal mondo”, la riapertura dopo 28 anni dell’ambasciata Usa in Somalia, l’aiutino di Mosca alla Cina per costruire un sistema anti-balistico, la nascita nell’organico del Pentagono della figura dell’assistente Segretario alla Difesa per la Cina.

PRIMO PIANO

È ripreso sabato, dopo sette mesi di break, il negoziato nucleare tra Stati Uniti e Corea del Nord, che però – come evidenzia il tweet di BBC – si è immediatamente interrotto a causa di incomprensioni che sono subito tornate a galla in otto ore e mezza circa di colloquio a tu per tu gli inviati dei due Paesi.

L’incontro tra il rappresentante speciale della Casa Bianca per la Corea del Nord, Stephen Biegun, e il plenipotenziario di Pyongyang, Kim Myong Gil, si è tenuto nell’isola di Lidingo al largo di Stoccolma in una struttura – Villa Elfvik Strand – che sorge non lontano dall’ambasciata di Pyongyang.

Non è la prima volta che i due Paesi scelgono la Svezia per tentare di sbrogliare i loro nodi. Il paese scandinavo – che ha una lunga tradizione di mediazione tra le due nazioni che, anche a causa della permanenza dello stato tecnico di guerra, non hanno relazioni diplomatiche dirette – ha ospitato analoghi colloqui nel marzo 2018 e a gennaio di quest’anno.

Al meeting non era estraneo un senso di urgenza espressa da ambo le parti. Gli Usa non possono che osservare con preoccupazione la ripresa dei test balistici da parte della Corea del Nord. Sono stati ben undici negli ultimi tre mesi, l’ultimo dei quali avvenuto appena mercoledì scorso con un aggravante: stavolta, Pyongyang ha testato un nuovo modello di missile a medio raggio, il Pukguksong-3, destinato ad essere lanciato dai sottomarini (si tratta cioè, per usare il lessico militare, di un SLBM).

Il missile è stato lanciato dalla città di Wonsan, nella costa orientale, e ha volato per 450 km, raggiungendo un’altitudine di 910 km, prima di inabissarsi in mare nel pieno della zona economica esclusiva del Giappone, che ha riassaggiato così dopo oltre un anno e mezzo di iato la paura delle intemperanze atomiche dell’indomito vicino.

Il test è stato commentato con grande preoccupazione dagli analisti, costretti a constatare l’aggravarsi della minaccia posta dall’arsenale di Pyongyang. Come ha confermato l’agenzia di stampa governativa del Nord KCNA, il vettore è stato anzitutto lanciato con un’angolazione accentuata: ciò significa che un lancio verticale gli avrebbe permesso di volare per almeno 1.900 km, tenendo nel mirino l’intera Corea del Sud e l’arcipelago nipponico.

Il secondo elemento inquietante del test di mercoledì è stato messo in rilievo da Ankit Panda, analista della Federation of American Scientists e profondo conoscitore della realtà del Nord. Il missile sperimentato non solo, sottolinea Panda, è un SLBM, con tutte le implicazioni che ne discendono in termini di minaccia strategica, ma è alimentato da combustibile solido. La conclusione dell’analista è sobria ma amara: quello della settimana scorsa è “senza dubbio il primo test di un missile nucleare dal novembre 2017”, ossia dal periodo in cui il dittatore di Pyongyang era ancora definito dal Trump “l’uomo razzo” e usava terrorizzare il mondo con i suoi spregiudicati test.

Nulla di nuovo, naturalmente, rispetto ai costumi di un regime che suole rafforzare in questo modo la propria posizione al tavolo negoziale. Il Regno Eremita, d’altronde, guarda con turbamento allo scorrere del calendario: entro la fine dell’anno, il regime di sanzioni internazionali che ne strozza l’economia dovrebbe subire, in assenza di novità, un ulteriore giro di vite. I lavoratori nordcoreani emigrati in Paesi come la Russia saranno obbligati infatti a rientrare a casa, facendo mancare alle casse di Pyongyang una delle ultime fonti di valuta estera.

Non è un caso che Kim Jong un abbia fatto riferimento alla fine dell’anno come deadline per lo sbloccarsi delle trattative con gli Usa e, dunque, per l’auspicato rilassamento delle sanzioni quale contropartita di concessioni tutte da negoziare sul fronte dell’arsenale nucleare e balistico. In assenza di questo segnale, Kim ha fatto intendere di poter riconsiderare la moratoria unilaterale auto-imposta un anno e mezzo fa – in concomitanza con le prime aperture ad un dialogo diretto tra lui e Donald Trump – sui test nucleari nonché su quelli dei missili intercontinentali.

Anche per l’America, però, l’appuntamento di sabato assumeva una certa importanza. The Donald è ormai da tempo in piena campagna elettorale, e tra i successi da sbandierare ne manca proprio uno sul fronte della politica estera. E l’investimento che il tycoon ha fatto sulla spettacolare special relationship tra lui e Kim, additata come viatico alla risoluzione di una minaccia annosa ma che nei primi mesi della sua presidenza si era fatta addirittura intollerabile, non consente fallimenti.

Ecco perché le notizie giunte nel tardo pomeriggio di sabato dalla Svezia hanno sicuramente guastato l’umore alla Casa Bianca ma anche, immaginiamo, rovinato la digestione al Maresciallo.

A far sapere per primo al mondo che la strada per una risoluzione della controversia atomica non si è accorciata di un millimetro è stato l’inviato di Pyongyang, Kim Myong Gil che, assistito da un interprete, ha letto – come si può vedere nel filmato incorporato nel tweet di Reuters – una piccata dichiarazione a beneficio della selva dei reporter presenti nel giardino dell’ambasciata in cui Kim era appena rientrato con le pive nel sacco e l’umore a terra.

I colloqui, ha subito rivelato Kim, “non hanno soddisfatto le nostre aspettative e alla fine si sono interrotti” Il motivo per l’inviato è presto detto: il fallimento va ascritto “interamente al fatto che gli Usa non hanno rinunciato alla loro vecchia posizione e al loro atteggiamento” e si sono presentati al tavolo negoziale “con le mani vuote”.

Kim ha precisato che gli americani “avevano alzato le aspettative suggerendo cose come approcci flessibili, nuovi metodi e soluzioni creative”. Ma, alla prova dei fatti, “ci hanno deluso enormemente affondando il nostro entusiasmo per i negoziati”.

E dire che la posizione della Corea del Nord, stando a Kim, sarebbe “pratica e ragionevole”, come evidenziato dalla moratoria sui test e dal passo fatto l’anno scorso, dopo il primo summit dei due presidenti a Singapore, di smantellare il sito dove il regime effettuava i test nucleari. Atti di disponibilità cui gli Usa sono chiamati, secondo l’inviato, a “rispondere con sincerità”, astenendosi in particolare da pretese eccessive e mostrandosi pronti soprattutto a qualche forma di reciprocità.

Kim, in tal senso, non esclude futuri progressi nel negoziato, che si materializzeranno però solo “quando tutti gli ostacoli che minacciano la nostra sicurezza e frenano il nostro sviluppo saranno rimossi completamente e senza ombra di dubbio”.

Parole che lasciano intendere come la posizione negoziale della Corea del Nord non sia di fatto cambiata: di denuclearizzazione – qualsiasi cosa si possa intendere con questa espressione che non viene letta allo stesso modo dalle due parti – si potrà parlare quando gli Usa avranno allentato la morsa delle sanzioni e, poi, quando avranno cominciato a contemplare quei passi rassicuranti – ma politicamente ostici per la superpotenza a stelle e strisce – come l’uscita definitiva dei 28.500 soldati americani dalla Corea del Sud e il venir meno dell’ombrello nucleare con cui Washington tutela la sicurezza di Seul.

È chiaro, insomma, come la distanza tra le due parti resti abissale. E che i colloqui di sabato non sono serviti ad altro che a ribadire quanta strada resti da fare perché il problema del nucleare nordcoreano, e il contesto politico incandescente entro cui si iscrive, possa essere lenito.

Questa consapevolezza era ben presente nella dichiarazione – che potete vedere nel tweet del giornalista di NPR Geoff Brumfiel – con cui il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Mortan Ortagus, ha reso noto l’esito negativo dei colloqui di sabato e fatto conoscere la posizione del suo governo:

Un “singolo sabato”, ha sottolineato Ortagus, non può essere sufficiente per “superare un retaggio di 70 anni di guerra e ostilità” tra i due Paesi.

Ha rigettato però, il portavoce, l’impressione veicolata poco prima dall’inviato di Pyongyang secondo cui i colloqui di Stoccolma siano stati fallimentari: le parole di Kim “non riflettono il contenuto e lo spirito della discussione di otto ore e mezza di oggi”, ha puntualizzato Ortagus, ricordando che gli Usa hanno messo sul tavolo “idee creative”.

Idee che potranno essere rilanciate molto presto, ha rivelato Ortagus, perché – prosegue la sua dichiarazione – gli Usa hanno accettato “l’invito dei nostri ospiti svedesi di ritornare a incontrarci di nuovo a Stoccolma tra due settimane per continuare la discussione su tutti i temi”.

Peccato che l’ottimismo del Dipartimento di Stato non trovi riscontro nella controparte, che attraverso lo stesso Kim ha proposto, come riferisce l’Associated Press, un congelamento dei colloqui da estendersi sino a dicembre.

La palla insomma torna in mezzo al campo, per un proseguio di partita su cui sarebbe imprudente accettare scommesse.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

La settimana scorsa l’offensiva di Khalifa Haftar e del suo LNA contro Tripoli ha compiuto sei mesi esatti e l’analista del Libya Observer, Dzsihad Hadelliha diffuso su Twitter una cartina del Paese che mostra la situazione attuale.

 


NOTIZIE DAL MONDO

 

Riapre dopo 28 anni l’ambasciata Usa in Somalia

Era il lontano 1991, e il presidente si chiamava George H. Bush, quando l’inviato degli Usa nel paese del Corno d’Africa precipitato in una devastante guerra civile dovette essere evacuato dall’ambasciata, rimasta chiusa da allora sino ad oggi.

La nuova sede diplomatica si trova nei pressi dell’aeroporto internazionale di Mogadiscio e per il nuovo ambasciatore Donald Yamamoto la sua riapertura rappresenta “un giorno significativo e storico che riflette i progressi fatti dalla Somalia negli ultimi anni”.

L’ambasciata, aggiunge il suo inquilino, “potenzierà la cooperazione” tra America e Somalia, ma farà anche “avanzare gli interessi strategici nazionali degli Usa e supporterà la nostra sicurezza complessiva sia dal punto di vista politico che da quello degli obiettivi e traguardi di sviluppo economico”.

L’apertura dell’ambasciata ha coinciso con il “Somali Partnership Forum”, kermesse di due giorni tenutasi nella capitale durante la quale i leader somali hanno discusso con esponenti della comunità internazionale giunti da 50 Paesi diversi di temi come le elezioni in programma nel 2021, la legge elettorale che dovrà essere varata prima della loro celebrazione, il programma di riforme costituzionali da completare entro il 2020, e i passi che Mogadiscio deve fare per migliorare le relazioni con le regioni.

Nel corso del Forum, l’Agenzia Usa per lo Sviluppo Internazionale (USAID) ha annunciato un nuovo stanziamento di 257 milioni di dollari in assistenza umanitaria per la Somalia. Il pacchetto porta a circa mezzo miliardo di dollari l’ammontare complessivo degli aiuti Usa al paese per l’anno in corso.

Mentre si celebrava il Forum, da circa 30 km di distanza è arrivato un memento dei problemi ancora irrisolti che gravano sul futuro della Somalia: sei soldati governativi sono stati uccisi, e altri otto feriti, in due agguati al medesimo convoglio dell’esercito avvenuti in una strada tra le località di Afgoye ed Elasha Biyaha e messi a segno dai militanti qaedisti di al Shabaab.

Lo schema del blitz riflette una tecnica consolidata tra i gruppi jihadisti di mezzo mondo: un ordigno improvvisato piazzato sulla strada ha prima colpito il convoglio; quando i soldati sono usciti dai mezzi per soccorrere i feriti, una seconda esplosione ha fatto strage dei presenti.

Le unità colpite fanno parte delle forze speciali (Danab) addestrate dagli Stati Uniti, che nello stesso giorno hanno sventato un altro attacco degli Shabaab all’aeroporto di Ballidogle, dove stazionano truppe americane. Nello scontro a fuoco sono rimasti uccisi dieci jihadisti.

 

Mosca aiuta Pechino a costruire un sistema anti-balistico

È stato direttamente Zar Vladimir ad annunciare, nel corso di una conferenza di affari svoltasi giovedì nella capitale russa, che il suo Paese si è messo a disposizione dei cinesi per aiutarli a realizzare un sistema in grado di allertare tempestivamente del lancio di missili balistici intercontinentali.

Un sistema di questo tipo, che fino al tempo della guerra fredda era rimasto prerogativa delle due superpotenze rivali di allora, Usa e Russia, funziona sulla base degli input ricevuti da un fitto insieme di radar basati a terra e di satelliti.

Si tratta, ha sottolineato Putin, di “una cosa molto seria che migliorerà drasticamente le capacità di difesa della Cina”.

Questo sviluppo matura in un momento in cui sia Mosca che Pechino accusano gli Usa di fomentare una nuova corsa alle armi dopo essersi ritirati dal trattato Inf che metteva al bando i missili balistici a corto e medio raggio basati a terra e aver testato un nuovo missile cruise (una versione aggiornata del famoso Tomahawk).

Arriva però anche in un momento in cui Cina e Russia stanno sperimentando una nuova luna di miele che molti considerano la risposta alle posizioni aggressive – o, per dirla in altri termini, un’azione di bilanciamento –  degli Usa di Trump.

Prima di essere calorosamente accolto lo scorso giugno dal suo collega russo al Cremlino, dove era stato invitato per celebrare i 70 anni dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche tra i rispettivi Paesi, Xi Jinping aveva rilasciato un’intervista all’agenzia russa Tass nella quale definiva Putin “il mio migliore e caro amico”.

La visita di Xi a Mosca è stata anche l’occasione per sganciare uno schiaffo all’amministrazione Trump, arrivato attraverso la firma di trenta accordi commerciali tra cui quello tra Huawei e la telco russa MTS per lo sviluppo in Russia delle tecnologie 5G e il lancio pilota nel 2019 e nel 2020 delle reti di quinta generazione.

   

Nasce al Pentagono la posizione di vice assistente Segretario per la Cina.

Creato a giugno, il nuovo slot si aggiunge alla lista dei 21 DASD (Deputy assistant secretaries of defense) presente nell’organico ministeriale.

Il nuovo DASD sarà anche l’unico che avrà il proprio focus su un singolo Paese (per capirsi, al Pentagono operano tra gli altri il DASD per l’Afghanistan, il Pakistan e l’Asia Centrale, il DASD per il Sudest Asiatico, l’India, i paesi ASEAN, l’Australia e la Nuova Zelanda e il DASD per l’Asia Orientale che ha competenza anche su Giappone, Corea del Sud, Mongolia, Taiwan e, fino a ieri, anche Cina)

Si tratta di posizioni ricoperte da figure civili esperte in determinati campi che, in termini gerarchici, si collocano tre scalini sotto il sottosegretario alla Difesa per la politica (che, per inciso, è una delle cariche politicamente più influenti in seno al dicastero).

Un comunicato del ministero precisa che il DASD per la Cina rappresenterà il “principale consigliere del Segretario alla Difesa su tutte le cose che riguardano la Cina” e fungerà da “hub” per tutte le politiche perseguite, con riguardo al Dragone, dalle varie agenzie del Pentagono.

Parlando martedì con Defense News, l’assistente Segretario alla Difesa per gli affari della sicurezza in Asia e nel Pacifico Randall Schriver ha confidato che l’idea di costituire una posizione ad hoc nel Pentagono era in considerazione da parecchio tempo.

Insieme alla creazione di questa nuova figura, il Pentagono procederà alla riorganizzazione dei DASD esistenti che hanno competenza sul Sudest Asiatico e sull’Asia orientale per riflettere i nuovi allineamenti strategici, a partire da quello – sempre più saldo – tra Giappone ed Australia.

 


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