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Perché Putin ora chiede scusa a Israele per le parole di Lavrov su Hitler?

Italia

I Graffi di Damato

Sarebbe davvero da sprovveduti scambiare per resipiscenza, o recupero sia pure momentaneo di buon gusto e buon senso, la telefonata con la quale Putin si è scusato col premier israeliano per la sortita del ministro degli Esteri russo sulle presunte origini ebraiche di Hitler, da abbinare all’ebreo e odiato -a Mosca- presidente dell’Ucraina Zelensky.

Non di resipiscenza, buon gusto, buon senso e simili si è trattato ma solo di opportunismo, essendosi rapidamente diffusa la notizia della tentazione d’Israele, dopo l’improntitudine del ministro degli Esteri russo, di non continuare a restare praticamente alla finestra ma di unirsi agli occidentali negli aiuti militari all’Ucraina. E gli israeliani -a Mosca lo sanno bene già dai tempi sovietici- in materia di armi e addestramento hanno imparato ad essere bravissimi per l’eterna condizione di allarme, e spesso anche di guerra, in cui vivono sin dalla nascita del loro Stato. Non sono certamente quella coppia italiana di Mario Draghi e Lorenzo Guerini, presidente del Consiglio e ministro della Difesa, immaginata nel fotomontaggio del solito Fatto Quotidiano su un carro armato agli ordini del presidente americano Joe Biden nella guerra “per procura” – dicono i pacifisti- che gli ucraini sono riusciti ad opporre a quella cominciata da Putin contro di loro senza neppure dichiararla. E che prosegue imperterrita a “Martiriupol”, come ha titolato il manifesto, e altrove per amputare, quanto meno, un Paese che originariamente Putin voleva annettersi completamente, allarmato da una Nato che “abbaiava”, secondo un’espressione adoperata da Papa Francesco e scambiata per un sostegno al Cremlino. Il Pontefice l’aveva usata invece per sottolineare e denunciare la sproporzione, diciamo così, della reazione di Putin, cioè l’insensatezza e la gravità dell’aggressione, invasione e quant’altro di un’Ucraina colpevole solo di essere confinante con la Russia e troppo attratta dall’Europa e, più in generale, dall’Occidente.

Sui rapporti fra Putin e il Papa, o viceversa, è divertente la vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, in cui Emilio Giannelli strappa Francesco dalla sedia a rotelle sulla quale è costretto in questi giorni per il suo ginocchio e lo fa saltare sulla schiena di un curvo Patriarca di Mosca per gridare “pace” in faccia a un Putin quasi napoleonico. L’unico errore che si può contestare a Giannelli è il titolo al singolare che ha voluto usare, o forse hanno usato quelli della redazione del giornale: “Putin e la Chiesa”. Nel nostro caso sono due le Chiese: quella ortodossa di Kirill, supina al Cremlino o addirittura istigatrice, e quella cattolica romana e universale di Francesco.

Due parole, infine, sull’altra guerra, per fortuna tutta politica, prodotta da Putin stavolta in Italia. Dove la maggioranza di governo, già indebolita di suo da una doppia campagna elettorale in corso, per le amministrative di giugno e per quelle generali dell’anno prossimo, salvo anticipo, è a pezzi anche o soprattutto per la linea fortemente atlantista adottata da Draghi di fronte al conflitto in Ucraina: un Draghi peraltro che, avendo ottenuto dal Parlamento quasi all’unanimità, l’autorizzazione ad aiuti “anche militari” a Zelensky fino a dicembre, non si sente obbligato a ripresentarsi alle Camere, come invece gli chiede un giorno sì e l’altro pure il grillino Giuseppe Conte, spalleggiato spesso più o meno apertamente dal leghista Matteo Salvini.

Due titoli giornalistici danno bene l’idea della situazione. Uno è quello di Repubblica su un commento di Francesco Bei: “Una danza tribale intorno al premier”. L’altro è quello della Stampa su un commento dell’ex direttore Marcello Sorgi: “Ma adesso Conte non tiri la corda”. Che potrebbe spezzarsi più rovinosamente per lui che per Draghi, col quale è perfettamente allineato il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio.

 

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