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Russia-Ucraina, Usa-Cina e Libia. Il Taccuino di Orioles

Russia

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana il summit Russia-Ucraina in programma il prossimo 9 dicembre a Parigi, il primo dal 2016 nonché il n. 1 della presidenza Zelensky. Seguono tre approfondimenti: uno sulle divergenze a Bangkok tra i ministri della Difesa di Usa e Cina sul Pacifico, uno sulla guerra hi-tech nei cieli libici (con la partecipazione italiana), e uno sull’editoriale di Prodi sulla Difesa Ue

 

PRIMO PIANO: VERSO UN SUMMIT RUSSIA-UCRAINA (CON LA MEDIAZIONE DI MACRON E MERKEL)

La Russia ha restituito lunedì scorso alla marina ucraina le tre navi militari che aveva catturato e posto sotto sequestro esattamente un anno fa nei pressi dello Stretto di Kerch in un’incidente che aveva riacceso improvvisamente la tensione tra i due paesi impegnati da oltre cinque anni in un conflitto congelato ma soggetto a intermittenti fiammate.

Era il 25 novembre del 2018, quando la “Nikopol”, la “Berdyansk” e la “Yany Kapu” furono bloccate mentre stavano imboccando lo Stretto che collega il Mar Nero al Mar di Azov e la Russia alla Crimea, con l’accusa – seccamente respinta da Kiev – di aver violato le apposite procedure e aver quindi, come ha ribadito Mosca lunedì, “attraversato illegalmente il confine russo”

Quel giorno, la Guardia Costiera russa aprì il fuoco sulle navi e le pose poi sotto sequestro insieme ai 24 marinai ucraini a bordo, che sono stati detenuti per dieci mesi in Russia e liberati il 7 settembre scorso nell’ambito di uno scambio di prigionieri.

Dopo aver sentito per telefono il collega russo Vladimir Putin, il presidente francese Emmanuel Macron ha salutato il rientro delle navi ucraine come un ulteriore gesto di distensione tra i due belligeranti, dopo lo scambio di prigionieri di settembre e il successivo ritiro concordato di alcuni contingenti di ambedue gli schieramenti dispiegati sui fronti del Donbass.

Il capo dell’Eliseo ha quindi annunciato che i tempi sono maturi per il primo summit tra lo Zar e il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky – il primo tra i capi di Stato dei due paesi dal 2016 – che si terrà a Parigi e sarebbe già calendarizzato per il prossimo 9 dicembre.

Il summit resusciterà il cosiddetto formato “Normandia”, con lo stesso presidente francese e la cancelliera tedesca Angela Merkel a fungere – come fecero la stessa Merkel insieme al predecessore di Macron, Hollande, quattro anni fa – da mediatori tra Russia e Ucraina.

La notizia del summit è stata confermata dal Cremlino, che in una dichiarazione ha precisato che l’evento sarà dedicato alla discussione degli accordi di Minsk del 2015, che per Mosca vanno implementati “velocemente e nella loro interezza” anche perché, a detta del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, ad essi “non esiste alcuna alternativa”.

 


Approfondimento 1: lo scazzo a Bangkok tra i capi della Difesa di Usa e Cina

I protagonisti della ministeriale di lunedì a Bangkok dei capi della Difesa dei Paesi Asean non potevano che essere loro: il n. 1 del Pentagono, Mark Esper, e il suo collega cinese Wei Fenghe.

Il faccia a faccia tra i ministri della Difesa della superpotenza n. 1 e 2 arriva in un momento di alta tensione tra i due Paesi. Esper giunge in Thailandia dopo un tour tra nazioni alleate del Pacifico – il secondo da quando è entrato in carica ad agosto – come Corea del Sud, Filippine e Vietnam, bisognose di rassicurazioni sul sostegno dell’America di fronte all’ascesa di Pechino e alle sue mosse aggressive nel Pacifico.

La missione del capo del Pentagono è stata concepita proprio per riaffermare l’impegno degli Usa sul fronte che a Washington definiscono la “regione Indo-Pacifica” e considerano ormai, come recita il comunicato diffuso dalla Difesa alla partenza di Esper, il “teatro prioritario” per le forze armate a stelle e strisce.

Che quest’area del pianeta sia rovente, e meriti perciò tutte le attenzioni da parte del gendarme del mondo, lo ha confermato l’ultima mossa di Pechino, che alla vigilia dell’incontro tra Esper e Wei ha sgunizagliato la prima portaerei made in China con tutto il suo battle group che, dopo aver compiuto una minacciosa incursione nello Stretto di Taiwan, si è diretto verso il Mar Cinese Meridionale per compiere quella che la Marina ha definito “un’esercitazione di routine” finalizzata a realizzare dei “test scientifici”.

Taipei ha ovviamente subito denunciato l’intimidazione cinese, giunta peraltro – e non a caso – alla vigilia di un delicato turno elettorale per l’isola, chiamata a scegliere se confermare l’attuale presidente Tsai, invisa alla terraferma, o voltare pagina.

In tutta risposta, il portavoce della Marina cinese Cheng Dewei ha fatto sapere con un post diffuso nel sito in lingua inglese dell’Esercito di Liberazione Popolare che la missione della portaerei rientrava nella “normale routine” di un’imbarcazione che ha bisogno ancora di una messa a punto, e nulla quindi aveva a che fare “con uno specifico obiettivo” o “con l’attuale situazione” delicata delle relazioni tra Cina, Taiwan e Usa.

Bastava leggere però il Global Times, quotidiano del Partito in lingua inglese, per cogliere al volo il senso dell’operazione. Quel test a sorpresa nello stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale, ha scritto infatti il giornale, “permetterà all’equipaggio della portaerei di sviluppare familiarità con un tratto di mare dove (la nave) transiterà molto spesso nel futuro”.

Non pago di questo momento verità, il Global Times ha anche sottolineato che, quando la portaerei sarà definitivamente pronta, verrà molto probabilmente posizionata nel porto di Sanya, nella provincia meridionale di Hainan, e dunque “alle porte del Mar Cinese Meridionale, e non lontano dall’isola di Taiwan”.

Lunedì a Bangkok, insomma, Esper non poteva certo fare finta di nulla mentre incontrava il capo dell’esercito rivale, con cui ha avuto un bilaterale di oltre un’ora e mezza a margine della ministeriale.

Di quel che i due si sono detti a porte chiuse disponiamo di un unico resoconto: quello del portavoce della Difesa cinese, Wu Qian, che alla fine del colloquio si è presentato ai reporter bramosi di conoscerne tono e contenuti.

Lo scambio tra i due leader sarebbe stato, come si suole dire nel gergo diplomatico, estremamente franco. Wei avrebbe anzitutto, a detta del portavoce, esortato l’America a “smetterla di flettere i muscoli nel Mar Cinese Meridionale”, che Pechino considera suo territorio sovrano in barba alle rivendicazioni dei paesi rivieraschi come Filippine, Vietnam o Brunei. “Chiediamo” agli Usa, sarebbero state le parole di Wei al collega, “di smetterla di intervenire nel Mar Cinese Meridionale e di cessare (nello stesso mare) le provocazioni militari”.

In secondo luogo, Esper sarebbe stato ammonito in merito alla situazione di Taiwan, dove la Cina “non tollererà alcun incidente (relativo alla) indipendenza” dell’isola. Gli Usa, in pratica, sono esortati a “gestire con delicatezza i temi legati a Taiwan” e ad astenersi dal generare “nuove incertezze sullo Stretto”.

Nulla è trapelato, invece, delle repliche di Esper, se non quanto contenuto in un breve comunicato del portavoce del Pentagono, Jonathan Hoffman, secondo il quale il ministro avrebbe fatto presente al collega la “perpetua riluttanza” della Cina ad aderire alle norme internazionali.

“Il Segretario Esper – recita il comunicato di Hoffman – ha puntualizzato che gli Stati Uniti voleranno, navigheranno e opereranno dovunque la legge internazionale lo consenta – e incoraggeranno le altre nazioni sovrane a fare altrettanto, proteggendo i loro diritti”.


Approfondimento 2: la guerra hi-tech nei cieli libici e il ruolo dell’Italia

È giallo sul drone delle forze armate italiane abbattuto una settimana fa a Tarhouna, nel nord-ovest della Libia, in una zona ‘caldissima’ del conflitto che va avanti ormai da quasi sei mesi tra i combattenti dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar e le milizie leali al Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli presieduto dal premier Fayez al-Sarraj.

Sui social hanno circolato le foto, poi riprese dalla stampa libica, dell’ala di un esemplare di Predator o di Reaper con impresso il tricolore.  Si tratta, come osserva l’Ispi, “di velivoli fabbricati dall’americana General Atomics, che l’aviazione italiana utilizza per attività di intelligence e che partono solitamente dalla base di Sigonella, per monitorare l’evolversi della guerra civile”.

Questa spiegazione fa vacillare la versione dell’incidente fornita dalla Difesa, che ha parlato di un “guasto tecnico” ad un drone che “effettuava una missione a sostegno dell’operazione Mare Sicuro” (operazione che, ricorda l’Ispi, offre “supporto e sostegno” alla Guardia costiera libica per il contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani).

Ebbene, se da un lato la Difesa asserisce che il piano di volo del drone era stato “preventivamente comunicato alle autorità libiche”, le forze che fanno capo ad Haftar hanno denunciato – e chiesto spiegazioni in merito al nostro paese – la presenza di un mezzo non autorizzato nello spazio aereo libico nei pressi di quella che l’Ispi definisce “una zona caldissima del conflitto” e, soprattutto, un “avamposto strategico delle milizie del generale”.

Ecco perché l’Ispi, nel tentare di decifrare l’oscura vicenda, ha scelto di evidenziare un dato di fatto: “l’incidente”, scrive l’Istituto milanese, “squarcia un velo sulla guerra tecnologica che si combatte nei cieli libici, con il coinvolgimento semi-segreto di sponsor regionali come Turchia e Qatar, a sostegno del Governo di autorità nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj, ed Emirati arabi uniti ed Egitto a dar man forte all’Esercito nazionale libico (Lna) di Khalifa Haftar. Uno scenario che vede coinvolti anche americani, russi, francesi… e italiani”.

Chiamato a fornire un commento conclusivo, l’esperto di Ispi Arturo Varvelli non può che sottolineare il gioco pericoloso che sta conducendo in Libia il nostro Paese, che si sforza di apparire come un mediatore e quindi un non belligerante, ma poi schiera sul campo mezzi sofisticati e persino uomini.

“Tenere i nostri soldati a Misurata, dove cadono le bombe di Haftar – osserva Varvelli – è controproducente e rischioso. Se decidiamo di restare dovremmo essere pronti a schierarci. Altrimenti tanto vale ritirarsi prima di doverlo fare a seguito di un incidente”.

 


Approfondimento 3: Bordata di Romano Prodi contro Macron 

Sul “Messaggero” di ieri, l’ex premier Prodi è intervenuto nel dibattito sulla Nato e il futuro della Difesa europea aperto dall’intervista rilasciata dieci giorni fa dal presidente francese Emmanuel Macron all’Economist.

L’editoriale dell’ex presidente della Commissione Ue si apre con un’ammissione: il capo dell’Eliseo “ha perfettamente ragione quando dichiara che la Nato deve essere radicalmente riformata e l’Ue deve assumere la responsabilità di costruire una propria politica estera e di difesa”.

Detto questo, Prodi passa all’attacco nei confronti di una politica estera – quella francese – che negli ultimi anni “si è radicalmente discostata da questi obiettivi”, riservando all’Italia più di uno sgarbo.

In Libano, ad esempio, Macron “è intervenuto nella politica interna… senza nemmeno parlare al nostro governo”: una scorrettezza imperdonabile, considerato che dal 2006 l’Italia schiera nel Paese dei Cedri un migliaio di soldati che sono, rimarca Prodi, “i principali garanti di un difficile pace”.

C’è poi la questione della Siria, che Macron ha bombardato “senza farne parola alla Germania”.

Ma le scelte più gravi della Francia di Macron, a detta del fondatore dell’Ulivo, sono avvenute nel contesto della guerra di Libia, dove il comportamento dei nostri cugini d’Oltralpe è stato come minimo “ambiguo”.

A fronte di questa sfilza di dispetti, cos’ha fatto qualche giorno fa la ministra della Difesa francese? Come ricorda Prodi, la signora Florence Parly “ha chiesto agli europei un aiuto comune nel portare avanti l’azione militare che la Francia sta sostenendo da sei anni in Mali per contenere senza successo i gruppi armati islamici che (stanno) dilagando in tutti i paesi a sud del Sahara”.

E qui l’osservazione che fa Prodi è che “un’azione europea contro il terrorismo così impegnativa, così gravosa in termini di costi e così rischiosa in termini di vite umane, può essere portata avanti solo se fondata su una politica comune”.

Il motivo è presto detto: per il due volte Presidente del Consiglio, è “impossibile mettere in atto un’operazione militare congiunta in qualsiasi paese del Mediterraneo o dell’Africa se i rapporti con quel paese vengono gestiti in modo esclusivo da un solo governo europeo”.

Questo, anzi, è secondo Prodi “l’ostacolo che maggiormente si oppone alla costruzione di una politica estera e della difesa europea”.

La quale, sottolinea, è un obiettivo – anche, se non soprattutto, in termini di costi – un obiettivo “alla nostra portata”, visto e considerato che Paesi con una stazza inferiore all’Europa e un Pil assai più contenuto come Russia e Turchia già conducono una politica di ampio respiro almeno su scala regionale.

In merito agli investimenti necessari a mettere insieme un esercito comune, Prodi ha anzi buon gioco a rimarcare come “i costi… sarebbero compensati dai risparmi su quanto oggi si spreca in conseguenza delle attuali disfunzioni organizzative e della mancata standardizzazione degli armamenti”.

Quello del mancato inquilino del Quirinale è, insomma, un via libera al sogno di una Difesa Ue e, al tempo stesso, un monito a chi, come Macron, crede di poter giocare questa carta barando.

 


Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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