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Sfide e baruffe delle elezioni midterm
L’approfondimento di Marco Orioles
Il primo test del trumpismo, le elezioni di midterm, si consuma oggi in un clima arroventato dalle parole affilate del comandante in capo di una nazione più divisa che mai intorno ai temi che ne definiscono l’identità e la direzione di marcia. Conscio della posta in gioco, Donald Trump si è speso anima e corpo in campagna elettorale, tenendo anche tre comizi al giorno in altrettanti Stati. E i suoi discorsi, salutati da folle osannanti, hanno scandito le parole chiave di questa competizione, da cui dipendono gli equilibri di potere a Washington, nel Paese e nel mondo.
ONDATA BLU IN ARRIVO
Gli americani sono chiamati a scegliere i nomi di tutti e 435 membri della Camera dei Rappresentanti, di 35 senatori, di 36 governatori e di oltre seimila cariche locali. Sui pronostici della vigilia, che parlano di una “ondata blu” destinata a travolgere il Partito Repubblicano nella camera bassa del Congresso e forse anche al Senato, attualmente controllati dai Repubblicani, nessuno però scommetterebbe un penny. Ancora vivo è lo choc delle presidenziali 2016, quando tutti i sondaggi, che davano per vincente la candidata democratica Hillary Clinton, furono smentiti clamorosamente. Anche stavolta, una rimonta dell’Elefantino non può essere esclusa, viene infatti misurata scientificamente da tutti gli istituti demoscopici ed è una conferma dell’appeal che l’inquilino della Casa Bianca, la sua posa tronfia e la sua retorica incendiaria hanno sull’America profonda, bianca, affluente e avversa ai mantra del globalismo solidale caro al partito dell’Asinello.
L’ELEFANTE PRONTO A SCHIACCIARE L’ASINO
“L’agenda democratica è un incubo socialista”, ha tuonato Trump nel suo comizio a Cleveland. L’America che crede dogmaticamente nelle libertà individuali e nello Stato leggero seguirà il presidente nella sua crociata anti-assistenzialista, mentre l’America democratica, che in campagna elettorale ha battuto come non mai il tasto dell’assistenza sanitaria per tutti, voterà agli antipodi. È uno scontro di civiltà all’interno della civiltà che, più di altre, ha plasmato l’immagine dell’Occidente come lo conosciamo. Uno scontro da cui non dipende solo il futuro della superpotenza a stelle e strisce.
È tutt’altro una coincidenza se il tema che ha definito più di altri il clima e i toni della campagna elettorale sia stato lo stesso che assilla l’America da un secolo a questa parte: è quello dell’identità, del “chi siamo noi” che il celebre politologo Samuel P. Huntington adottò come titolo del suo ultimo libro. Immigrazione, razza e diversità culturale sono sempre più al centro della dialettica politica americana, polarizzata in uno schema che vede i Repubblicani coltivare il sentimento securitario degli strati popolari, i perdenti della globalizzazione galvanizzati dagli slogan xenofobici del presidente, e i Democratici difendere a spada tratta la società aperta e i diritti delle minoranze. Non è certo un caso se, alle elezioni di midterm, i Democratici si presentano con il volto di candidati attinti dal serbatoio delle minoranze, mentre quelli repubblicani hanno le sembianze dell’America bianca e conservatrice.
LA CARTA DELL’AMERICA FIRST
La carovana di migranti latinos in marcia dall’Honduras è servita, al presidente, per ribadire la sua linea dura, e per rinfacciare agli avversari il loro punto debole: essere troppo indulgenti nei confronti di una potenziale minaccia alla sicurezza nazionale. Agitando lo spauracchio dell’invasione da sud, dei criminali e dei terroristi mescolati alla massa di desperados in cerca di un posto al sole negli Usa, il presidente ha risfoderato la sua carta preferita, la stessa che gli ha consegnato le chiavi della Casa Bianca due anni fa. Domani si vedrà se questo asso nella manica gli assicurerà la posta in palio, o se gli si ritorcerà contro.
Il voto di oggi definirà la pendenza dei rimanenti due anni di presidenza Trump. In salita, se il Partito Democratico si aggiudicherà la Camera dei Rappresentanti, come dicono i sondaggi, e soprattutto se agguanterà anche il Senato, evento più improbabile. In discesa se il partito di The Donald conserverà la maggioranza in entrami i rami del Parlamento. Se la prima eventualità dovesse materializzarsi, si aprono scenari foschi per l’agenda del presidente, con la prospettiva certa di un ostruzionismo parlamentare e la possibilità niente affatto remota di nuove inchieste giudiziarie che mesterebbero nel torbido degli scandali che hanno funestato i primi due anni di governo Trump. Molti democratici sognano, addirittura, la procedura di impeachment nei confronti del presidente: con la Camera sotto controllo, sarebbe nell’ordine delle possibilità, anche se l’iter si arenerebbe in un Senato dove il colore rosso sarà ancora sufficientemente diffuso.
POPULISMO ALLA PROVA
Una vittoria repubblicana sancirebbe invece il trionfo definitivo dell’onda populista incarnata da un presidente iracondo e tumultuoso ma capace di interpretare le inquietudini dell’americano medio. Significherebbe che il populismo di marca trumpiana non è un fenomeno passeggero, un’anomalia della storia, ma un elemento centrale del paesaggio politico contemporaneo con cui tutta la classe dirigente o aspirante tale deve fare i conti. Al contrario, un successo democratico sancirebbe il rientro nella bottiglia del genio del trumpismo e la speranza di un ritorno agli schemi ortodossi della politica. Quando la stampa mondiale parla, delle elezioni di oggi, come di un referendum su Trump, ha ragione. Se il suo nome non è nelle schede elettorali, è comunque la sua persona, ingombrante e acuminata come le sue parole d’ordine, a definire la battaglia e i suoi possibili esiti.
LA VARIABILE AFFLUENZA
Trenta milioni di americani hanno già votato, ed è un segnale già chiaro: l’affluenza al voto è una delle variabili chiave di questa competizione, e un suo aumento rispetto ai livelli modesti che si registrano normalmente alle elezioni di midterm (appena un terzo degli elettori va a votare) evidenzierebbe la volontà degli americani di dire la propria. I democratici puntano su una forte partecipazione da parte delle donne, dei giovani, dei neri e dei latinos, categorie che esprimono il minor gradimento verso il presidente. Quest’ultimo, e il partito Repubblicano, vanno tuttavia a gonfie vele tra i bianchi e le persone meno scolarizzate, una base che è stata mobilitata in massa per sostenere la battaglia identitaria del presidente più anomalo della storia recente e quella di un partito che The Donald è riuscito ad addomesticare e rendere più somigliante a se stesso.
Americhe differenti che misureranno il loro peso nelle urne e ci diranno, tra ventiquattr’ore, quale immagine gli Usa coltivino di se stessi.