La nuova centralità Turchia, Iran e l’ostilità con gli Usa e Israele, le sfide dell’Egitto: Oltreconfine, la rassegna stampa internazionale di Policy Maker
Pubblichiamo qui una sintesi di tre articoli apparsi nell’undicesimo numero della nuova serie del Focus Mediterraneo allargato realizzato dall’ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il quale analizza le più recenti dinamiche geopolitiche ed economiche del Mediterraneo allargato e dell’Africa subsahariana. Ci siamo soffermati in particolare su tre Paesi più volte finiti al centro delle cronache negli ultimi tempi come l’Iran, l’Egitto e la Turchia, analizzati rispettivamente negli articoli di Luigi Toninelli, Giuseppe Dentice e Valeria Talbot.
L’IRAN DOPO LA GUERRA DEI DODICI GIORNI
L’articolo di Luigi Toninelli intitolato “Iran: anatomia di una non caduta” analizza la resilienza dell’Iran di fronte agli attacchi israeliani e americani che hanno recentemente colpito il suo programma nucleare e le infrastrutture strategiche. Nonostante la crisi, il regime ha dimostrato una sorprendente capacità di ripresa post-conflitto, attraverso un mix di consolidamento politico, adattamento economico e ricalibrazione geopolitica. Gli attacchi hanno causato circa 1.200 morti e 4.500 feriti, distruggendo parte delle infrastrutture nucleari e militari, inclusi sistemi difensivi avanzati, e portando alla perdita di figure di spicco come Mohammad Bagheri e Hossein Salami. Tuttavia, la Guida Suprema Ali Khamenei ha sfruttato la crisi per rafforzare l’unità interna e consolidare la presa di potere del regime. La sopravvivenza di Ali Shamkhani, inizialmente dato per morto, è diventata inoltre un simbolo di continuità, amplificato dalla propaganda per consolidare la narrativa di resistenza contro l’aggressione esterna. Come osserva Toninelli, nella fase di ripresa l’Iran ha adottato una strategia multidimensionale: sul piano interno, il regime ad esempio ha intensificato la repressione, con le Forze delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) che, nonostante le perdite, controllano settori chiave dell’economia, rappresentando circa il 40% del Pil nazionale attraverso il controllo di energia, telecomunicazioni e attività clientelari. Questo ha permesso di contenere le proteste, anche se l’insoddisfazione popolare cresce per le difficoltà economiche, aggravate da un’inflazione stimata al 35% annuo post-attacchi. Economicamente, l’Iran ha saputo invece affrontare abbastanza bene, sempre a detta dell’autore, la crisi energetica causata dalla distruzione di infrastrutture petrolifere, che hanno ridotto la capacità di export di circa il 20%. Infatti, la “flotta ombra” di cui dispone il regime ha garantito la continuità delle esportazioni verso la Cina (pari a circa il 50% delle esportazioni petrolifere totali) e la Russia, aggirando le sanzioni occidentali. Il razionamento interno ha poi evitato un collasso immediato, nonostante carenze energetiche abbiano colpito il 30% delle famiglie urbane. A livello geopolitico, la caduta di Assad in Siria ha interrotto il “corridoio sciita”, riducendo l’influenza iraniana nel Mediterraneo in termini di capacità logistica. Per rispondere, l’Iran ha intensificato i dialoghi con le monarchie del Golfo, come l’Arabia Saudita, con un aumento significativo degli incontri diplomatici bilaterali rispetto al 2024. La conclusione di Toninelli è che l’Iran ha evitato il collasso grazie a una combinazione di repressione interna, alleanze strategiche e propaganda. Ciò non toglie, precisa l’autore, che la ripresa rimane fragile: l’economia, con un PIL contratto del 5% post-crisi, e l’insoddisfazione popolare, con il 60% della popolazione che disapprova la gestione delle risorse estere, rappresentano sfide significative per un Paese appena uscito da un conflitto devastante.
LE SFIDE DELL’EGITTO
L’articolo di Giuseppe Dentice, intitolato “Egitto: tra ripresa economica e instabilità regionale” offre un’analisi approfondita della situazione economica e geopolitica dell’Egitto, che si trova in un delicato equilibrio tra una timida ripresa economica e le crescenti tensioni regionali. Dopo due anni di gravi turbolenze economico-finanziarie, che hanno messo a rischio la stabilità politica e sociale, il Paese mostra segnali di miglioramento, grazie soprattutto al rispetto delle condizioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale. Un dato significativo è la riduzione dell’inflazione, passata dal picco del 38% a settembre 2023 al 16,8% lo scorso maggio, un risultato che evidenzia una gestione più controllata della crisi economica. Il programma Extended Fund Facility (EFF), avviato nel 2016 e revisionato nel 2024, rappresenta il fulcro della strategia economica egiziana. Con una scadenza prevista per ottobre 2026, ma con possibilità di estensione al 2027 a causa di ritardi nelle riforme e nei trasferimenti di fondi, l’EFF punta a liberalizzare l’economia, ridurre il ruolo dello Stato e attrarre investimenti esteri. Tuttavia, come sottolinea Dentice, i progressi sono stati limitati: la privatizzazione di asset pubblici, come la cessione parziale di Telecom Egypt e del 30% di Bank of Egypt, è ancora incompleta, e l’adozione di un tasso di cambio flessibile ha prodotto risultati modesti. La crescita economica prevista per l’anno fiscale 2024-2025 è del 3,7%, con proiezioni che indicano un aumento al 5% e 5,2% nei due anni successivi, ma la fragilità strutturale dell’economia rimane una sfida significativa. Sul piano sociale, i benefici economici si concentrano prevalentemente nel settore bancario e tra le élite, mentre i tagli ai sussidi alimentari ed energetici hanno aggravato la povertà, che affligge circa un terzo della popolazione egiziana. Le disuguaglianze territoriali si sono accentuate, e l’aumento del lavoro informale riflette l’incapacità del modello economico di promuovere uno sviluppo inclusivo. Sul fronte geopolitico, scrive l’autore, l’Egitto deve affrontare un contesto regionale instabile segnato dal conflitto Israele-Hamas, dalla crisi umanitaria a Gaza e dall’insicurezza nel Mar Rosso, dove gli attacchi houthi hanno dimezzato il traffico commerciale attraverso il Canale di Suez, causando una perdita di 7 miliardi di dollari nel 2024, pari a oltre il 60% rispetto al 2023. Per mitigare queste sfide, il Cairo ha istituito un comitato di crisi per monitorare la situazione nel Mar Rosso e a Gaza, considerata una priorità per la sicurezza nazionale. Inoltre, l’Egitto sta cercando un riavvicinamento con Teheran per stabilizzare la regione e ridurre gli attacchi houthi.
LE PARTITE DELLA TURCHIA
L’articolo di Valeria Talbot intitolato “Turchia: le partite aperte di Erdoğan” analizza le complesse dinamiche politiche, economiche e internazionali del Paese sotto la leadership di Recep Tayyip Erdogan, evidenziando le sfide interne e le opportunità geopolitiche. La Turchia si trova in una fase di forte polarizzazione politica, crisi economica e rinnovato attivismo diplomatico, con Erdogan che cerca di consolidare il potere in un contesto di crescente instabilità. L’economia turca è sotto pressione a causa della svalutazione della lira, che ha raggiunto il minimo storico di 40 lire per un dollaro a seguito dell’indagine dello scorso 7 luglio contro Özgür Özel, leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), per offese al presidente. Questo evento ha accentuato la cautela degli investitori internazionali, già scettici a causa delle tensioni politiche interne. Il tasso d’interesse sui bond nazionali a 2 anni è salito al 45%, segnalando un’alta percezione di rischio a breve termine. L’inflazione, attesa al 58% entro la fine del 2023, continua a erodere il potere d’acquisto, con un disavanzo di conto corrente pari al 5,4% del PIL (49 miliardi di dollari) nel 2022, cresciuto del 44% nella prima metà del 2023. Le misure restrittive, come l’aumento dell’IVA del 2% e delle tasse sui carburanti, hanno ulteriormente gravato sui cittadini turchi, già colpiti da un’inflazione reale stimata all’82,81% da economisti indipendenti. Tuttavia, il turismo ha registrato una crescita del 27% nel 2023, con 22 milioni di visitatori e introiti di 21,7 miliardi di dollari, contribuendo a un avanzo di conto corrente di 674 milioni di dollari a giugno. La polarizzazione politica si è intensificata con la repressione contro il CHP, culminata nell’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu a marzo per accuse di corruzione, percepito come un atto politico per neutralizzare un rivale di Erdogan in vista delle presidenziali del 2028. L’arresto ha innescato proteste antigovernative e ha aggravato la crisi economica, con i mercati che temono un’ulteriore deriva autoritaria. Nonostante tale quadro incerto, un elemento di svolta opportunamente segnalato nell’articolo è il dialogo con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che a maggio ha dichiarato la fine della lotta armata, seguendo l’appello di Abdullah Öcalan, leader del PKK incarcerato dal 1999. Il processo, mediato dal Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM), è stato avviato nell’ottobre precedente con l’“iniziativa senza terrore” di Devlet Bahçeli, alleato di Erdogan. Tuttavia, la roadmap per lo scioglimento del PKK rimane incerta, sottolinea Talbot, con la liberazione di Öcalan posta come condizione dai curdi. Nonostante l’apertura al dialogo, le operazioni militari turche contro le basi del PKK nel nord dell’Iraq proseguono, suscitando scetticismo nella comunità curda. Sul piano internazionale, la Turchia di Erdoğan cerca di rafforzare la propria influenza navigando le tensioni tra Israele e Iran e consolidando il ruolo in Siria dopo il declino dell’influenza iraniana. Come ricorda Talbot, la visita del ministro degli Esteri Hakan Fidan al summit BRICS di Rio de Janeiro gli scorsi 6-7 luglio ha ribadito la visione di Erdogan di un ordine globale multipolare, sintetizzata nel motto “il mondo è più grande di cinque”. In Siria, la Turchia punta invece a ripristinare l’accordo di libero scambio pre-2011 e a fornire addestramento antiterrorismo, con l’obiettivo di controllare la base aerea di Tiyas. La normalizzazione con le monarchie del Golfo ha inoltre portato a significativi accordi economici, pari a 50,7 miliardi di dollari con gli Emirati Arabi Uniti e 8,5 miliardi in bond per la ricostruzione post-terremoto.