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Usa, Turchia, Ucraina e Pakistan. Il Taccuino di Orioles

Turchia

In primo piano nel “Taccuino Estero” di questa settimana l’ultimatum degli Usa alla Turchia sul sistema di difesa anti-aerea russo S-400. Nella sezione “Notizie dal mondo”, l’insediamento del nuovo presidente ucraino Zelenskiy, lo stop del Pakistan al gasdotto dall’Iran, le operazioni della marina Usa nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan, il radicamento di al Qaida e dell’Isis in Afghanistan. Le “Segnalazioni” sono dedicate alla guerra fredda tecnologica Usa-Cina. Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina

PRIMO PIANO. L’AUT AUT DEGLI USA ALLA TURCHIA: F-35 O S-400 (E SANZIONI)  

L’ultimo monito degli Usa alla Turchia e al suo presidente Recep Tayyip Erdogan arriva sotto la forma di un ultimatum lanciato attraverso alcune fonti di governo sentite anonimamente da CNBC. Ankara, è il messaggio tagliente che parte da Washington, è chiamata a cancellare senza indugi l’accordo con la Russia per la fornitura del sistema di difesa anti-aerea S-400, che secondo gli americani è incompatibile con i sistemi d’arma in uso alla Nato e, in particolare, con gli F-35.

La Turchia è esortata in particolare ad acquistare, al posto degli S-400, il sistema Patriot fabbricato negli Usa dalla Raytheon. E deve decidersi subito: la deadline per dire sì o no è fissata dalle fonti in questione alla prima settimana di giugno (che, tutt’altro che incidentalmente, è anche il mese in cui è prevista la consegna degli S-400).

Se Ankara non si conformasse, precisano le fonti, ci saranno almeno due conseguenze. La prima è l’esclusione dal programma Joint Strike Fighter, inclusa la cancellazione della consegna programmata di cento esemplari del caccia Lockheed Martin. A tale provvedimento si affiancherebbe, poi, l’imposizione di sanzioni sulla base dell’America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA).

Non lasciano molti margini all’interpretazione le parole con cui un funzionario del Dipartimento di Stato, citato sempre dalla CNBC, ha reiterato la posizione dell’amministrazione Trump: “I paesi Nato devono acquisire equipaggiamento militare che sia interoperabile con i sistemi Nato. Un sistema russo non rispetterebbe quello standard”. “Sottolineiamo”, ha aggiunto minacciosamente il funzionario, “che la Turchia affronterà conseguenze reali e negative qualora si completasse la consegna degli S-400”.

Ma il presidente turco  non sembra affatto intenzionato a obbedire al diktat. “È assolutamente fuori discussione”, ha affermato Erdogan sabato scorso, che la Turchia “faccia un passo indietro dall’acquisto degli S-400. Quello è un affare concluso”. Non solo: Ankara, ha annunciato il capo dell’AKP, produrrà con Mosca il nuovo sistema S-500.

La Turchia, dunque, tira diritto e si prepara ad affrontare l’ira di Washington. Ne sono una riprova le affermazioni con cui il ministro della Difesa turco Hulusi Akar, lo scorso martedì, ha sottolineato che il suo governo è praticamente rassegnato alle sanzioni americane.

Per Akar, la reazione americana è comunque esagerata e incomprensibile, perché – dice, ribadendo la posizione più volte sostenuta dalla Turchia – l’acquisto degli S-400 è puramente a scopi difensivi e non pone alcuna minaccia agli Usa.

Akar intravede in verità – sulla base di cosa non è dato sapere – un miglioramento nelle relazioni con l’alleato d’oltreoceano. “Nei nostri colloqui con gli Stati Uniti”, ha affermato, “noi riscontriamo un’attenuazione (delle posizioni originarie) e una riconciliazione su temi che includono l’est dell’Eufrate (in Siria), gli F-35 e i Patriot”.

Secondo il ministro, inoltre, non c’è “alcuna clausola nell’accordo sugli F-35 che dica che uno sarà escluso dalla partnership per aver acquistato gli S-400. La Turchia”, ha ricordato Akar, “ha pagato 1,2 miliardi di dollari. Abbiamo anche prodotto in tempo le parti ordinate a noi. Cosa possiamo fare in più come partner?”. Ecco perché il ministro si aspetta che la partecipazione della Turchia al programma JSF vada avanti.

Peccato che, a Washington, non sembri esserci nessuno pronto a manifestare indulgenza. La portavoce del Dipartimento di Stato Morgan Ortagus ha chiarito, al contrario, che l’America non è affatto intenzionata a transigere.

“Abbiamo chiaramente il desiderio”, ha dichiarato Ortagus alla stampa, “di coinvolgerli (i turchi) e abbiamo continuato a informarli della nostra preoccupazione per questa acquisizione, ma ci saranno conseguenze reali e negative se ciò accadrà”.

Da Mosca, intanto, arrivano parole piccate per l’aut aut degli Usa alla Turchia. Parlando mercoledì coi reporter, che gli hanno chiesto cosa pensasse della notizia diffusa dalle CNBC, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia considera “inaccettabile un simile ultimatum”.

Peskov ha invitato invece a considerare “le molte dichiarazioni fatte dai rappresentanti della leadership della Turchia guidata dal presidente Erdogan che l’accordo sugli S-400 è già completo e sarà implementato”.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

La notizia delle dimissioni della premier britannica Theresa May, arresasi il 24 maggio dinanzi all’impossibilità di portare a termine la Brexit insieme al Parlamento di Westminster, fa il giro del mondo e arriva ad Hong Kong, dove il quotidiano “South China Morning Post” rilancia dal suo profilo Twitter l’annuncio con cui May, parlando sullo sfondo del portone più famoso di Downing Street, esce di scena in lacrime.

Dall’altra parte del mondo, invece, si propaga sul social dei 28o caratteri la gioia del primo ministro indiano Narendra Modi, che insieme al suo partito Bjp incassa un trionfo personale alle elezioni parlamentari – i cui risultati vengono diffusi il 23 maggio – che gli assicurano un secondo mandato.

 


NOTIZIE DAL MONDO

Zelenskiy entra in carica in Ucraina e minaccia di dissolvere la Rada. Pronunciando il giuramento con cui è entrato ufficialmente in carica, il nuovo presidente ucraino lunedì ha annunciato di voler mantenere la promessa fatta in campagna elettorale di portare il Paese a elezioni parlamentari anticipate. “Il governo non è la soluzione ai nostri problemi: il governo è il problema”, ha detto Zelenskiy nel discorso inaugurale, citando quello di insediamento di un altro attore proiettato ai vertici del potere, Ronald Reagan. La Rada è però pronta a dare battaglia al neo-presidente, coi parlamentari tutti presi a formare nuove coalizioni al fine di neutralizzare la sua mossa. Zelenskiy li ha anche esortati ad adottare leggi anti-corruzione e a cancellare l’immunità parlamentare. Ai ministri ha poi posto l’alternativa secca tra impegno per il cambiamento o le dimissioni. C’è stato spazio, nel discorso di Zelenskiy, anche per proposte bizzarre, come l’invito a non esporre negli uffici la sua fotografia “perché il presidente non è un’icona, un idolo o un ritratto. Appendete piuttosto le foto dei vostri figli, e guardatele bene ogni volta che dovete prendere una decisione”. Al termine della sua orazione, Zelensky ha detto che “in tutta la mia vita, ho provato a fare tutto quello che potevo per far ridere gli ucraini. Quella era la mia missione. Ora farà tutto quanto è in mio potere affinché, se non altro, gli ucraini non piangano più”. NPR

 

Passo indietro del Pakistan sul gasdotto dall’Iran. Il ministro dell’energia ha spiegato che il progetto, varato nel 1995 con l’idea di portare in India via Pakistan il gas iraniano, è stato bloccato a causa delle sanzioni Usa contro Teheran, che mettono ora in forse un accordo da cui Delhi si era già ritirata a causa, tra le altre cose, dei costi elevati. L’Iran, che ha completato la sua parte dei lavori nel 2011, avrebbe offerto a Islamabad 500 milioni di dollari come incentivo a portare a termine l’opera. In caso di definitivo abbandono del progetto, il Pakistan rischia di pagare miliari di dollari di penali. Oltre alle sanzioni a stelle e strisce, a spingere il Pakistan a ripudiare l’intesa con l’Iran c’è anche l’incremento delle importazioni di gas naturale liquefatto (LNG) dal Qatar e dall’America: una risorsa che soddisfa oggi più del 40% della domanda di energia del Paese asiatico. Deutsche Welle

 

Doppia operazione della U.S. Navy nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan. L’operazione di domenica 20 maggio ha visto il cacciatorpediniere Preble incrociare nei pressi del banco di Scarborough, formazione di sabbia e rocce appena affioranti che si trovano a 250 km dalle coste filippine e a quasi 900 da quelle della Cina,. “La Preble”, ha spiegato il comandante Clay Doss, portavoce della Settima Flotta Usa, “ha navigato entro dodici miglia nautiche dal banco di Scarborough al fine di sfidare le eccessive rivendicazioni marittime (della Cina) e preservare l’accesso alle vie d’acqua come stabilito dalla legge internazionale”. Puntuale e furente la reazione di Pechino. Il portavoce del ministero degli Esteri Lu Kang ha affermato nel consueto briefing alla stampa che la nave americana è entrata in quel tratto d’acqua senza il permesso della Cina. “Devo sottolineare ancora una volta”, ha dichiarato Lu, “che le azioni rilevanti della nave da guerra Usa hanno violato la sovranità della Cina (…). Raccomandiamo con forza agli Stati Uniti di fermare immediatamente queste azioni provocatorie al fine di non danneggiare le relazioni sino-americane e la pace regionale e la stabilità”. Due giorni dopo, Lu è stato costretto ad esternare di nuovo le più “severe rimostranze” per una seconda operazione della marina statunitense, stavolta nello stretto di Taiwan, dove mercoledì hanno fatto il loro ingresso lo stesso cacciatorpediniere Preble e il tanker Walter S. Diehl. “Il transito delle navi attraverso lo stretto di Taiwan”, ha dichiarato Doss, “dimostra l’impegno degli Usa per un Indo-Pacifico libero e aperto”. “La questione di Taiwan”, ha sottolineato invece Lu in conferenza stampa, “è quella più sensibile nelle relazioni sino-americane”. Con un post su Facebook è intervenuta anche la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, per evidenziare che non vi è motivo di allarme. “Non è successo nulla di anormale”, ha scritto Tsai. È dall’inizio dell’anno, ricorda Reuters, che le navi da guerra americane hanno ripreso a navigare, con cadenza mensile, nello stretto che divide la Cina dalla provincia ribelle che Pechino punta ad annettere. Reuters e Reuters

 

Al Qaeda presente e radicata in tutto l’Afghanistan. Lo ha dovuto ammettere il comandante delle forze Usa nel Paese e della missione internazionale Resolute Support, generale Austin Miller, secondo cui la formazione jihadista fondata da Osama bin Laden e oggi guidata dall’egiziano Ayman al-Zawahiri non è presente “in una specifica regione (ma) in tutto il Paese”. Le parole di Miller confermano quanto il “Long War Journal” sta documentando da oltre un decennio. Le informazioni a disposizione dell’organizzazione di monitoraggio creata dalla “Foundation for the Defense of Democracy” illustrano una verità amara per gli Stati Uniti, impegnati in un difficile dialogo coi talebani: al Qaida, scrive Bill Roggio, “ha operato sul suolo afghano negli ultimi due decenni con l’approvazione dei talebani”. Il LWJ nota infatti non solo che al Qaida opera nelle aree controllate dal movimento degli studenti coranici, ma che qaedisti e talebani muoiono sovente insieme sotto i raid degli Usa. Nel suo sito, il LWJ ha pubblicato anche una mappa che mostra, in base ai dati raccolti negli ultimi due rapporti Onu, la presenza di al Qaida e dell’Isis in Afghanistan: la prima risulta operativa in tutte e tredici le province afghane insieme alla sua branca regionale chiamata “al Qaida nel Subcontinente Indiano”. Isis, con la sua filiale denominata “Isis-K” o “Provincia del Khorasan”, è presente in cinque province. Long War Journal

 


SEGNALAZIONI

  • “La fine della globalizzazione tech”: l’articolo di Tom Fowdi sulla guerra fredda tecnologica tra Usa e Cina su CGTN

 

  • “Il problema della Cina non scomparirà”: il saggio di Richard Fontaine, Ceo del Center for a New American Security, su “The Atlantic”.

 

  • “Demistificare la Belt and Road. La lotta per definire il ‘progetto del secolo’ della Cina: il saggio di Yuen Yuen Ang su “Foreign Affairs”.

 

  • “Le conseguenze globali di una guerra fredda sino-americana”: l’intervento di Nouriel Roubini – ex FMI, Banca Mondiale, Federal Reserve e già consigliere economico alla Casa Bianca di Bill Clinton – su “Project Syndicate”.

 


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