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Usa vs Iran, cronaca di una settimana vissuta pericolosamente

Iran

Da due settimane negli Stati Uniti e nel mondo non si parla d’altro: Stati Uniti e Iran sono sull’orlo della guerra. Il “Taccuino Estero” è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina

PRIMO PIANO

Da due settimane negli Stati Uniti e nel mondo non si parla d’altro: Stati Uniti e Iran sono sull’orlo della guerra. È la conclusione cui sono giunti giornali e analisti esaminando le ultime mosse della Casa Bianca, che due domeniche fa, con una decisione annunciata dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, ha accelerato l’invio in Medio Oriente, nella zona di competenza del Comando Centrale del Pentagono, di uno Strike Group guidato dalla portaerei Abraham Lincoln, di uno stormo di bombardieri B-52, e di una batteria di Patriot.

Una mossa suggerita dai moniti dell’intelligence, che ha indicato la possibilità che si verifichino attacchi alle forze Usa da parte dell’Iran e, soprattutto, dei suoi “proxies”, vale a dire le tante milizie – da quelle irachene, agli Hezbollah libanesi, agli Houthi yemeniti – che obbediscono alle direttive di Teheran e, segnatamente, dei Guardiani della Rivoluzione.

Con queste premesse, è facile immaginare la fibrillazione con cui sono state accolte le gravi notizie di questa settimana. Una settimana che si è aperta con il sabotaggio nel porto di Fujairah, uno dei sette membri della federazione degli Emirati Arabi Uniti, di quattro petroliere che stavano caricando greggio in quello che è uno dei più importanti terminal del Golfo (qui il resoconto Reuters e qui quello del Financial Times). Ecco come il corrispondente del Financial Times dall’Arabia Saudita, Ahmed Al Omran, ha lanciato su Twitter la notizia:

https://twitter.com/ahmed/status/1127669739294162946?s=21

Una notizia, questa, che ha fatto subito il giro del mondo, condita però da una buona dose di disinformazione. Nella versione che circolava incontrollata sul web, propagata per prima – con probabile malafede – dall’emittente libanese al-Mayadeen e rilanciata – con evidenti doppi fini – dai putinisti di Sputnik, nel porto di Fujairah si sarebbero verificate “numerose esplosioni” e “fra sette e dieci petroliere” sarebbero state in fiamme. Ecco uno dei tanti esempi di siti che sono caduti nella trappola:

 

Le notizie false abbondavano al punto che l’ufficio media del governo di Fujairah è stato costretto a diffondere una smentita ufficiale.

Se la manipolazione della verità è scattata puntuale anche in questa occasione non lo si deve solo alle dinamiche inesorabili del web, spazio in cui è sempre difficile distinguere il grano dal loglio. Il fatto è che Fujiarah non è un posto qualsiasi.

Situato a 140 km a sud dello Stretto di Hormuz, da cui transita il 20% di tutto il petrolio che, estratto dal Golfo, rifornisce il mondo, il terminal di Fujairah è anche l’unico degli Emirati che sorge sulle coste del mare arabo. A pochi passi da qui inoltre si trova una base della Quinta Flotta Usa che – tra le altre cose – ha il compito di presidiare una zona che strategica è dir poco.

Ma cosa è successo, esattamente,  domenica? La dinamica si chiarisce col passare delle ore, e il giorno dopo i resoconti di stampa dettagliano la situazione. Il governo degli Emirati, anzitutto, ha reso nota in mattinata l’identità delle petroliere coinvolte: si tratta delle “Amjad” e “Al Marzoqah”, di proprietà della società saudita Bahri; della “A. Michel”, degli Emirati; e, infine, della norvegese “MT Andrew Victory”.

Un filmato che è circolato sul web, che sarebbe stato diffuso da Russia Today ed è stato rilanciato tra gli altri dalla corrispondente da Washington del quotidiano degli Emirati “The National”, Joyce Karam, e dal corrispondente dall’Iran della BBC, Ali Hashem, mostrava uno squarcio nello scafo della Andrea Victory:

Ci penserà un funzionario americano sentito (anonimamente) dall’Associated Press a confermare nella stessa giornata che l’Andrea Victory e le altre petroliere sono state colpite da “cariche esplosive” che ha causato squarci ampi da 1,5 a 3 metri negli scafi.

Il ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, Khalid al-Falih, dichiarava quindi all’agenzia di stampa statale SPA che le due petroliere del regno hanno subito “danni significativi”, anche se non ci sono state vittime né si è verificato sversamento di greggio.

Chi è stato? Secondo il funzionario americano che ha parlato con AP, non ci sono dubbi: nei fatti di Fujairah – secondo la valutazione fatta da un team militare a stelle e strisce – c’è la mano dell’Iran o dei suoi “alleati”. D’altra parte, ricordava l’agenzia di stampa americana, era stata proprio l’Amministrazione Marittima Usa a diramare tre giorni prima un avviso ai marinai che li metteva in allerta: “l’Iran o i suoi proxies regionali” avrebbero potuto prendere di mira il traffico marittimo commerciale.

Frattanto, le borse di Dubai e Abu Dhabi andavano a picco, e il prezzo del petrolio schizzava verso l’alto, salvo tornare in serata ai livelli precedenti, con i future sul Brent che chiudevano a 70,23 dollari al barile.

È in queste circostanze che il Segretario di Stato Usa, in viaggio verso l’Europa, cancellava la visita programmata per  lunedì a Mosca (preservando però l’appuntamento del giorno dopo a Sochi con Vladimir Putin e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov) per dirigersi di gran carriera a Bruxelles, dove informerà dell’accaduto, e soprattutto della strategia Usa contro l’Iran, i colleghi di Germania, Francia e Gran Bretagna più l’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Dai suoi interlocutori Pompeo ha ascoltato parole angosciate. Il ministro britannico Jeremy Hunt intravede “il rischio che un conflitto” tra Stati Uniti e Iran “si inneschi per sbaglio”; il tedesco Heiko Maas ha sollecitato l’America a “fare tutto il possibile per impedire che la situazione” precipiti; Mogherini ha esortato gli Usa a esercitare la “massima moderazione e evitare ogni escalation”: il francese Jean-Yves Le Drian, infine, ha definito “molto preoccupante” la decisione dell’Iran, annunciata due settimane fa, di non rispettare più parte degli obblighi derivanti dall’accordo nucleare.

A Washington, frattanto, interveniva Donald Trump. Che, parlando ai reporter dalla Casa Bianca, ha affermato con il consueto tono brusco: “Vedremo cosa succede con l’Iran. Se fa qualcosa, sarebbe davvero un pessimo errore. Se fanno qualcosa, soffriranno grandemente”.

Le ruvide parole del presidente acquistavano ulteriore gravità alla luce della rivelazione fatta lo stesso giorno dal New York Times.  Al quotidiano della Grande Mela, alcuni esponenti dell’amministrazione Trump hanno raccontato che il giovedì precedente l’Iran ha tenuto banco in un incontro al Pentagono tra i massimi responsabili della Sicurezza Nazionale.

Durante il meeting, il neo-Segretario alla Difesa Patrick Shanahan ha presentato, su indicazione di Bolton, un “piano militare che prevede di inviare almeno 120 mila soldati in Medio Oriente qualora l’Iran dovesse attaccare le forze americane o accelerare il lavoro sulle armi nucleari”. Quel numero – 120 mila uomini – ricorda tanto, sottolinea il NYT, “la dimensione della forza americana che ha invaso l’Iraq nel 2003”.

La notizia, ovviamente, fa scalpore. Spingendo lo stesso Trump, il giorno dopo, a formulare una secca smentita: quelle del Times sono “fake news”, ha dichiarato il presidente dalla Casa Bianca. Ma ai giornalisti che raccoglievano le sue parole, The Donald ha spiegato anche che, “Se lo facessimo, manderemmo molti più soldati di quello”.

Newskeek decideva intanto di approfondire quanto scoperto dai colleghi del NYT. Il magazine ha consultato alcuni ufficiali del Pentagono, che non solo hanno confermato la notizia del Times, ma aggiunto dettagli scottanti. Le opzioni militari contro l’Iran delineate da Bolton, secondo i militari, sono più di una e sono di varia intensità: si va dagli strike aerei a incursioni mirate.

Uno degli ufficiali è stato però costretto a precisare che il meeting non va letto come passo propedeutico allo scoppio di un conflitto: “è solo flettere i muscoli”, ha spiegato, al fine di costringere Teheran a sedersi al tavolo negoziale. E qualora l’Iran non si pieghi, ecco che potrebbe scattare “una campagna di strike missilistici”.  Questo perché – ha commentato l’ufficiale – “non importa quanta spavalderia possa venire da parte dell’Iran, quando vieni colpito ogni giorno da 500 missili” ti adegui.

Peccato che l’Iran, di discutere con l’America, non ne ha la minima intenzione, come confermato martedì dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. “Negoziare con l’attuale governo americano”, è la sua dichiarazione affidata al sito “Khamenei.ir”, è “velenoso… loro non sono esseri umani decenti”. Poi, su Twitter, Khamenei ha messo a nudo la sua convinzione: “Noi non cerchiamo una guerra, e nemmeno loro”:

Se dunque la tensione si tagliava a fette, si può immaginare cosa sia successo quando, nella stessa giornata di martedì, si registrava un nuovo, inquietante sviluppo.

I ribelli Houthi, universalmente considerati come “proxy” dell’Iran, hanno attaccato con alcuni droni impianti petroliferi sauditi, riuscendo a danneggiare due stazioni di pompaggio lungo l’oleodotto che collega l’Est all’Ovest del Paese da cui transitano ogni giorno, in direzione dei terminal sul Mar Rosso, cinque milioni di barili di petrolio.

Il portavoce degli Houthi, Mohammed Abdul Salam, ha rivendicato su Twitter l’azione, definendola una risposta alla “aggressione” saudita in Yemen:

 

Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita, renderà noto in giornata di aver temporaneamente chiuso l’oleodotto per fronteggiare un incendio che ha causato danni ad una stazione di pompaggio. In un evidente tentativo di scongiurare il peggio, la compagnia ha quindi precisato che i rifornimenti di petrolio e gas non hanno subito conseguenze. Ma i mercati non perdonano, e il giorno dopo il Brent è salito di oltre l’1%, raggiungendo una quotazione di 72 dollari al barile.

L’ira della casa dei Saud si innalzava al cielo, unita ad un monito formulato dal ministro dell’Energia Khalid al-Falih: “questo atto di terrorismo e sabotaggio”, ha dichiarato Falih, “in aggiunta alle recenti azioni nel golfo arabo, prende non solo di mira il regno ma anche la sicurezza dei rifornimenti mondiali di petrolio e l’economia globale”.

I sospetti, naturalmente, si appuntano di nuovo sull’Iran, il gran burattinaio degli Houthi. Ma Teheran ha tutt’altra spiegazione per i fatti di domenica e martedì. La Repubblica Islamica, ha chiosato da Dehli il ministro degli Esteri Javad Zarif, “aveva previsto precedentemente che simili azioni si sarebbero verificate al fine di creare tensioni nella regione”. Il vero pericolo, per Zarif, è costituito da “elementi estremisti nel governo Usa”.

L’opinione del ministro sui falchi che dettano legge a Washington e vogliono la guerra sembra riscuotere consenso anche in Europa. Lo si desume dalla mossa compiuta mercoledì dalla Spagna, che ha deciso repentinamente di trasferire a Mumbai la nave Méndez Núñez che stava pattugliando i mari insieme allo Strike Group statunitense capitanato dalla portaerei Lincoln.

 

Ci ha pensato il quotidiano El Pais a illustrare le vere ragioni della mossa: Madrid non vuole essere trascinata in un conflitto con l’Iran. “Nessuno scontro o azione di guerra è immaginata” dalla Spagna, ha affermato un portavoce del Ministero della Difesa spagnolo, “ed è per questa ragione che la partecipazione (della Méndez Núñez) viene sospesa per il momento”.

La titolare della Difesa, Margarita Robles, spiegherà poi che la decisione è stata “prudente” oltre che “perfettamente ammissibile” alla luce dell’accordo di cooperazione di due anni tra Usa e Spagna che regola la partecipazione della Méndez Núñez ad attività congiunte con la marina americana. “Il governo degli Stati Uniti”, ha affermato la ministra, “si è imbarcato in una missione che non era programmata quando è stato firmato l’accordo”. Di qui dunque la scelta di sfilarsi.

La giornata successiva si apre con un nuovo sviluppo che riguarda questa volta l’Iraq, ossia uno dei Paesi in cui le milizie filo-iraniane potrebbero attaccare interessi americani. Con una nota diffusa nel suo sito web, il Dipartimento di Stato Usa ha ordinato la partenza dall’ambasciata Usa di Baghdad e dal consolato di Erbil di tutto il personale non necessario. La nota si apre con un avviso esplicito: “Non viaggiate in Iraq a causa di terrorismo, sequestri e conflitto armato”.

Nelle stesse ore, l’ambasciata di Baghdad informava inoltre via Twitter “tutti i cittadini Usa” che in Iraq si registrano “tensioni intensificate”, da cui la necessità di “rimanere vigili”:

In America, intanto, infuriava il dibattito sulle mosse della Casa Bianca, che molti considerano ostaggio delle posizioni dell’ala dura capitanata dal falco John Bolton. Posizioni che, secondo le ricostruzioni, non sarebbero unanimemente condivise dall’intero gabinetto, che sarebbe spaccato.

Molto sensibile alle voci della stampa, Trump decide di metterci una pezza. I media dicono che il mio governo è diviso sull’Iran? “Fake news”, commenta su Twitter il tycoon, costretto tuttavia ad ammettere che ci sono diverse opinioni sull’argomento e che spetta a lui trovare una mediazione. “Sono sicuro”, è la sua conclusione, “che l’Iran vorrà parlare presto”:

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1128739520311066626?s=20

Ma il New York Times, il giorno dopo, racconterà una storia diversa. Più che della linea dura propinata da Bolton, che incontra invece il suo favore, Trump è preoccupato “dalla narrativa secondo cui il suo consigliere di sicurezza nazionale stia guidando la politica dell’amministrazione in Medio Oriente”. Secondo il Times, dunque, il problema di Trump sarebbe il protagonismo di Bolton, che non a caso sarebbe mal visto dal chief of staff ad interim del presidente, Mick Mulvaney. Appare sintomatica, in ogni caso, la battuta che secondo un membro “senior” dell’amministrazione avrebbe pronunciato il presidente: “Se dipendesse da John (Bolton), adesso saremmo (coinvolti) in quattro guerre”.

È sullo sfondo di questi tamburi di guerra impazziti che giovedì due navi da guerra americane hanno fatto il loro ingresso nel Golfo Persico: sono la USS McFaul (DDG-74) e la USS Gonzalez(DDG-66), transitate nel tardo pomeriggio dallo Stretto di Hormuz. Nelle stesse ore, la Lincoln e il suo Strike Group stavano incrociando al largo delle coste dell’Oman.

La giornata di venerdì si è aperta invece con le durissime dichiarazioni via Twitter del principe saudita Khalid bin Salman, figlio del re Salman e vice ministro della Difesa: gli attacchi con i droni contro l’oleodotto della Saudi Aramco sono stati “ordinati dal regime di Teheran e messi a segno dagli Houthi”. La conclusione che la casa reale ha tratto dai fatti di domenica e da quelli di mercoledì  traspare bene dall’editoriale del quotidiano saudita in lingua inglese “Arab News”, che ha invocato strike “chirurgici” contro l’Iran (perché “è chiaro che le sanzioni non stanno mandando il messaggio giusto”).

È in questo clima surriscaldato che giunge la notizia, battuta sabato dalle agenzie, che in Iraq la Exxon Mobil ha evacuato lo staff straniero da un giacimento petrolifero a causa delle tensioni tra Usa e Iran. Nello stesso giorno, inoltre, il Bahrein ha diramatp un avviso ai suoi cittadini sconsigliandoli dal recarsi in Iraq e Iran a causa delle “condizioni instabili”. Sempre sabato, infine, le autorità americane hanno invitato alla cautela le compagnie aeree che effettuano voli sopra il Golfo Persico e il Golfo dell’Oman.

Nelle stesse ore, quindi, la Quinta Flotta Usa ha fatto sapere che i paesi del Consiglio della Cooperazione del Golfo hanno cominciato “pattugliamenti rafforzati” nelle acque del Golfo Arabo.

Si giunge così alla giornata di ieri, segnata da un altro episodio: un razzo ha colpito la “Green Zone” di Baghdad, atterrando ed esplodendo a pochi passi dall’ambasciata americana.

In Arabia Saudita, frattanto, ha parlato il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir: il regno “non vuole una guerra nella regione né la cerca”, e anzi “farà tutto quanto in suo potere per impedire questa guerra”. Ma, ha aggiunto Jubeir, “riafferma allo stesso tempo che, nel caso l’altra parte scelga la guerra”, l’Arabia Saudita “risponderà con tutta la forza e determinazione”.

Sempre domenica,  l’erede al trono e ministro della Difesa, Mohammed bin Salman, si sentiva al telefono con Mike Pompeo, mentre re Salman convocava un summit di emergenza di tutti i leader arabi e del Golfo da tenersi alla Mecca il 30 maggio.

Da Teheran, giungeva quindi il messaggio del nuovo capo dei Guardiani, il generale Hossein Salami, veicolato dall’agenzia di stampa semi-ufficiale Tasnim: “non stiamo perseguendo la guerra, ma non abbiamo neanche paura della guerra”.

Parole cui replicherà Trump con un tweet esplicito digitato in tarda serata: “se l’Iran vuole combattere, quella sarà la fine ufficiale dell’Iran. Non minacciate mai più gli Stati Uniti!”:

https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1130207891049332737?s=21

Questa la cronaca dei fatti di una settimana che ha agitato il mondo, costretto a constatare che il Medio Oriente rischia, come altre volte nel passato, di esplodere.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

Lunedì scorso alla Casa Bianca è stato ricevuto il premier ungherese Viktor Orban, per il quale il padrone di casa ha avuto parole d’encomio: ha fatto un “tremendous job”, ha affermato Trump, per il quale il leader magiaro è “Probabilmente, come me, un po’ controverso, ma questo è ok”.

 


NOTIZIE DAL MONDO

Difficoltà finanziarie e altre sfide per il progetto della nuova capitale amministrativa egiziana. Lanciato nel 2015 dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, il progetto da 58 miliardi di dollari mira ad edificare nel deserto, a 45 km circa ad est del Cairo, una città efficiente e pulita che ospiti, su una superficie di 168 km quadrati, almeno 6,5 milioni di abitanti oltre che la sede di ministeri, ambasciate e istituzioni finanziarie. Sono già stati costruiti una grande moschea, una cattedrale un hotel e un centro congressi, mentre sono in corso i lavori per la realizzazione di un distretto economico dove sorgeranno 21 grattacieli, incluso il più alto dell’Africa, con 85 piani. Ma il progetto, che è gestito dal Ministero della Casa e dall’Esercito, deve fare i conti con l’improvviso ritiro di uno dei finanziatori, gli Emirati Arabi Uniti, e con altri problemi come il reperimento di forza lavoro qualificata. “Abbiamo bisogno di finanziamenti molto grandi”, ha ammesso l’ex generale Ahmed Zaki Abdeen, che guida la società che gestisce il progetto, “e lo Stato non ha soldi da darmi”. Secondo Abedeen, il 20% dei finanziamenti è venuto dall’estero, compresi 4,5 miliardi dalla Cina. Ma l’accordo da 20 miliardi di dollari raggiunto nel 2016 con la China Fortune Land Development Co. per dare il via alla seconda fase dei lavori è saltato a causa di problemi finanziari. Il risultato è che la seconda e anche la successiva terza fase sono stati “posposti”, ammette Abdeen. Reuters

 

Tutte le versioni di Wikipedia bloccate in Cina. Lo ha annunciato Samantha Lien, portavoce della Wikimedia Foundation. “Dopo aver analizzato da vicino i nostri rapporti sul traffico interno”, ha spiegato Lien a Reuters, “possiamo confermare che Wikipedia è bloccata in tutte le versioni e lingue”. Secondo i test effettuati da GreatFire.org, organizzazione che studia la censura di internet in Cina, il sito di Wikipedia è inaccessibile dal 23 aprile. La versione in cinese di Wikipedia è tra i tanti siti che in Cina non si possono visitare a causa del famigerato “Great Firewall”. Le versioni in altri linguaggi erano state tuttavia risparmiate. Il più che fondato sospetto – conoscendo le prassi del regime – è che, con l’avvicinarsi del trentesimo anniversario della rivolta di piazza Tienanmen, le autorità di Pechino abbiano deciso di non correre rischi oscurando la popolare enciclopedia on line. Reuters

 

Incriminati i due cittadini canadesi arrestati in Cina a dicembre. Durante il consueto briefing alla stampa, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lu Kang, ha spiegato che Michael Spavor, ex diplomatico passato all’International Crisis Group, e Michael Kovrig, businessman che operava in Corea del Nord, sono accusati di spionaggio in quella che appare come una duplice ritorsione di Pechino per l’arresto in Canada a dicembre della CFO di Huawei, Meng Wanzhou. Parlando da Parigi, il premier di Ottawa Justin Trudeau ha dichiarato che il governo cinese “non sta seguendo le stesse regole e principi che la grande maggioranza delle democrazie rispetta per quanto concerne lo stato di diritto”. Per l’ex ambasciatore canadese in Cina, Guy Saint-Jacques, il destino di Spavor e Kovrig sarebbe segnato. “Una volta che sei formalmente accusato nel sistema cinese”, ha osservato Saint-Jacques, “sarai dichiarato colpevole col 99,9% delle probabilità. Ciò che dobbiamo vedere adesso è l’esatta natura delle accuse e se la condanna includerà anche la pena di morte”. CBC News

 

Controffensiva dei ribelli nella Siria nordoccidentale. Lo ha annunciato l’ufficio media del gruppo Jaish al Izza, secondo cui lunedì scorso è iniziata “un’operazione militare che prende di mira le campagne a nord di Hama” a cui hanno preso parte anche i qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham e il Fronte di Liberazione Nazionale, formazione  appoggiata dalla Turchia. Il riesplodere delle ostilità nelle province di Idlib e Hama tra il regime di Damasco e le forze russe da un lato, e il cartello dei ribelli dall’altro, ha già provocato la morte di 120 persone, la fuga di più di 150 mila civili e l’allarme della comunità internazionale, preoccupata per un’escalation che mette a repentaglio la tregua concordata lo scorso settembre da Russia e Turchia. Gran Bretagna, Francia e Germania lunedì hanno invocato un cessate il fuoco. Reuters

 

Lo Stato Islamico costituisce una “provincia” in India. È quanto si desume dal comunicato diffuso lunedì da Amaq, l’agenzia di stampa del gruppo jihadista. La provincia è stata chiamata “Wilayah of Hind”, e la sua nascita viene annunciata in corrispondenza di un attacco contro soldati indiani avvenuti nella città di Amshipora, nel distretto di Shopian del Kashmir. L’assalto è stato confermato da una dichiarazione della polizia indiana, secondo la quale sarebbe morto un islamista, Ahmad Sofi, noto alle forze dell’ordine per un lungo passato di militanza in formazioni del Kashmir e per aver preso parte a vari attacchi alle forze di sicurezza. Sofi avrebbe recentemente giurato fedeltà allo Stato Islamico, come attestato da un’intervista rilasciata dal militante ad un magazine di Srinagar vicino ai jihadisti. Reuters

 

Cellula dello Stato Islamico sgominata in Malesia. Secondo un comunicato della polizia malese, lunedì sono stati tratti in arresto quattro militanti trovati in possesso di esplosivi e pronti a colpire luoghi di culto non islamici. Si tratta di un malese, il presunto capo della cellula, di due Rohingya originari del Myanmar e di un cittadino indonesiano. Il quartetto è stato arrestato a seguito di raid condotti dalla polizia nei pressi della capitale Kuala Lumpur e dello stato orientale di Terengganu. Per il capo della polizia malese, Abdul Hamid Bador, questa “cellula dello Stato Islamico” era pronta ad “assassinare individui di alto profilo ed attaccare luoghi di culto hindu, cristiani e buddisti in Malesia”. Uno dei quattro arrestati ha ammesso di appoggiare l’Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo cui sono attribuiti gli attacchi condotti in Myanmar due anni fa che hanno causato la feroce risposta dell’esercito. Secondo la polizia, meditava anche di attaccare l’ambasciata del Myamnar a Kuala Lumpur. The Defense Post

 


SEGNALAZIONI

“Chi vince quando salgono le tensioni tra Usa e Iran? La Cina”: il commento di Jon B. Alterman su Defense One.

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“Il problema del processo di pace: non c’è una soluzione a due Stati per Israele e la Palestina”: l’articolo sul piano di pace del consigliere e genero di Donald Trump, Jared Kushner, scritto da Paul R. Piller per The National Interest.

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“’Made in China 2025’ è una minaccia al commercio mondiale?”: l’articolo di James McBride e Andrew Chatzky sul sito del Council on Foreign Relations.

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“La caduta di Abdelaziz Bouteflika”: il saggio breve di James McDougall su Foreign Affairs.

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“Sette giorni per salvare l’Europa”: il commento di Susi Dennison e Mark Leonard sul sito dell’European Council on Foreign Relations.

 


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