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Le pene e le vittorie di Giorgia Meloni
In obiettive difficoltà sul versante dei migranti, Giorgia Meloni e il suo governo ancora ai primi passi si stanno tuttavia rifacendo in qualche modo su un altro fronte: quello della guerra in Ucraina
E’ durata poco la schiarita che sul fronte dei migranti era stata avvertita a proprio vantaggio non solo da Giorgia Meloni ma persino dal manifesto, a sinistra, nella disponibilità annunciata da Parigi a fare sbarcare a Marsiglia i 234 soccorsi nel Mediterraneo dalla nave Ocean Viking, battente bandiera norvegese. Che ora sembra in rotta non più verso il porto francese ma verso le coste italiane, questa volta della Sardegna e non della Sicilia. Il sindaco di Porto Torres si è quasi già messo su una banchina ad aspettare. E ciò per un intervento di Bruxelles contro la linea del governo Meloni che ha in qualche modo scavalcato l’Eliseo, costringendolo ad una polemica con Roma che ha, fra l’altro, coperto il presidente Emmanuel Macron dagli attacchi della destra conterranea.
Adesso è di nuovo “rotta di collisione”, com’è tornato a scrivere il manifesto. Collisione non solo e non tanto con Parigi ma -ripeto- con Bruxelles, dove il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani potrebbe vedersela fra qualche giorno con gli omologhi dei paesi aderenti all’Unione. E non sarà un confronto facile, visto che neppure sulle parole sono d’accordo il governo di Roma e gli altri, l’uno parlando di “migranti” da distribuire fra i vari paesi comunitari e gli altri di “naufraghi” da accogliere comunque nel porto più sicuro e vicino alle acque in cui sono stati soccorsi.
In obiettive difficoltà sul versante dei migranti -di cui è controverso anche il carattere emergenziale, date ormai la cronicità degli sbarchi sulle coste italiane e la loro consistenza inferiore ai migranti che raggiungono via terra gli altri paesi dell’Unione dalle loro terre povere o insanguinate dalle guerre, come da febbraio scorso anche l’Ucraina- Giorgia Meloni e il suo governo ancora ai primi passi si stanno tuttavia rifacendo in qualche modo su un altro fronte. Che è proprio quello della guerra in Ucraina. Dove i fatti, pur nella loro indubbia drammaticità, a costo di tante vite umane, stanno confermando la convinzione atlantista che gli aiuti militari occidentali all’Ucraina non siano incompatibili ma complementari al perseguimento di una pace giusta, da negoziare non per darla vinta a Putin ma per salvare l’Ucraina invasa dalle sue truppe.
“La grande ritirata russa”, ha titolato Repubblica riferendo di quella che è ormai è una fuga da Kerson: tanto vasta e precipitosa, coinvolgente quarantamila militari, da avere insospettito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi generali. Che temono un’operazione finalizzata a fare abbassare la guardia all’Occidente, ridurne l’impegno e preparare una nuova, più cruenta offensiva, magari nel contesto anche di una situazione politica negli Stati Uniti più difficile per il presidente Joe Biden. Che però sembra uscito dalle elezioni di cosiddetto medio termine meno male delle previsioni dei suoi avversari. Il principale dei quali peraltro, l’ex presidente Donald Trump, sicuramente più comodo a Putin come interlocutore, non è per niente -con i suoi candidati- il beneficiario dei guadagni elettorali e parlamentari di questo appuntamento con le urne.
“Russi in rotta, ucraini in festa”, ha titolato Libero in modo un pò riduttivo sul piano politico, omettendo o sottovalutando la festa di quanti in Italia- sicuramente più a Milano che a Roma nelle manifestazioni per la pace che si sono contrapposte sabato scorso- hanno sostenuto e sostengono con maggiore convinzione e coerenza la causa del Paese aggredito da un Putin avvolto nel fantasma imperiale di Pietro il Grande, o dei più recenti Stalin e compagni.