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Mercati e ambulanti. Tempi duri anche per la FIVA

mercati ambulanti

L’impatto della pandemia sui mercati e i venditori ambulanti. I dati della Federazione Italiana Venditori Ambulanti – FIVA Confcommercio

Il 2020 è stato un anno nero per venditori ambulanti e mercati, anche peggiore delle previsioni elaborate in pieno lockdown a maggio 2020 e riverificate nella fase autunnale. A confermarlo sono i dati aggiornati a marzo 2021 della Federazione Italiana Venditori Ambulanti – FIVA Confcommercio.

Rispetto al volume di affari registrato nel 2019 le attività di commercio su aree pubbliche hanno infatti perso nel 2020 un valore complessivo di circa 7,2 miliardi di euro, segnando un -39% rispetto all’anno precedente, che ha addirittura colpito alcuni comparti merceologici e di tipologia di esercizio oltre il 90%.

COSA METTE IN GINOCCHIO IL SETTORE

“Pesano, su questo calo di affari, le chiusure generalizzate dovute sia al lockdown nazionale, sia ai provvedimenti regionali, sia infine alle autonome decisioni delle autorità locali in materia di mercati. Pesano, soprattutto, – fa sapere FIVA – le restrizioni imposte agli operatori delle fiere e degli eventi, sostanzialmente chiusi dal 1° marzo dello scorso anno e pesano gli effetti negativi della crisi del turismo, soprattutto nelle città d’arte”.

“A fronte di questi dati, i ristori sono stati pressoché nulli e, in larga parte, del tutto inefficaci come si vedrà dai dati che seguono. Eppure, del commercio su aree pubbliche si è parlato pochissimo, quasi che le imprese del settore fossero ‘invisibili’ per i media e per l’opinione pubblica”.

QUANTI SONO GLI AMBULANTI

Il comparto del commercio su aree pubbliche conta, al 30 giugno 2020, 177.168 imprese attive operanti nel settore dell’alimentazione (31.932), in quello dell’abbigliamento e vestiario (65.871), nel settore delle merci varie o altri prodotti non alimentari (67.817) con una discreta aliquota di ristorazione mobile (3.116 imprese) e di merceologia mista non altrimenti definita (8.432).

93.849 imprese sono di nazionalità extracomunitarie, 80.537 imprese italiane, e le restanti sono imprese comunitarie o di nazionalità non classificata. 31.200 imprese sono gestite da donne.

Il numero complessivo degli addetti fra titolari, coadiutori e dipendenti è stimato intorno a 330.000.

LE PERDITE

Il commercio su aree pubbliche movimenta intorno ai 19 miliardi di euro all’anno – circa l’1,3% del Pil, secondo quanto analizzato fino al 2019.

Nel 2020 il comparto ha accusato una fortissima flessione, pari ad un valore medio pro azienda di 38,95 punti percentuali, per un valore nominale medio di oltre 42.000 euro e con una stima sul settore pari a circa 7,5 miliardi di euro.

Dati Federazione Italiana Venditori Ambulanti 

IL RISCHIO CHIUSURA

Il quadro dei ricavi 2020 e le perdite maturate rispetto al 2019 indicano con chiarezza che i margini di rischio di chiusura definitiva delle imprese sono reali e ben superiori al 30% preventivato nel corso del lockdown. Ed in effetti più del 31% delle imprese di commercio su aree pubbliche ha registrato perdite superiori al 60%. “Diventa difficile ristabilire un equilibrio quando le riserve sono esigue o insufficienti. E quando chiude una impresa chiude un pezzo di Paese”.

Dati Federazione Italiana Venditori Ambulanti

I RISTORI

“Pur apprezzabile nelle intenzioni, la politica dei ristori – commenta FIVA – non solo è stata insufficiente ma non ha prodotto risultati apprezzabili”. Tra l’utilizzo dei codici Ateco per stabile chi avesse diritto ai ristori e il calcolo della perdita di volume di affari sul mese 2019 rispetto al mese 2020 sono venute a crearsi situazioni di grande squilibrio. Infatti, come è possibile vedere anche dalla tabella, nel quadro generale convivono situazioni molto differenti fra loro.

Quasi il 7% delle imprese non ha beneficiato di alcun ristoro mentre i valori pro capite si pongono per circa il 30% nella classe fra 1.800/3.500 euro e per il 20% nella classe fra 3.500/5.000 euro. In sostanza la metà delle imprese avrebbe beneficiato di una somma oscillante tra i 1.800 e i 5.000 euro.

Sui ristori sono poi intervenute anche le Regioni dalle quali ciascuna impresa ha ricevuto in media quasi 540 euro (meno al Sud).

La poca conoscenza del comparto e le disuguaglianze prodotte dai codici Ateco hanno portato a conseguenza incomprensibili. Soltanto l’8% dei ristori con somme superiori ai 5.000 euro è andato alla tipologia che ha sofferto più perdite e, di converso, il 57% di tali importi è andato alla forma di esercizio che ha subito le minori perdite.

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