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Occupazione record e working poors: cosa dice la XII relazione Inps

Inps

Occupazione record ma restano le tensioni: ancora in ritardo l’occupazione femminile e preoccupazione per i working poors. La XXII relazione annuale dell’Inps

Un anno record per l’occupazione ma sui salari picchia l’inflazione. La XXII relazione annuale dell’Inps, presentata in Parlamento, traccia il quadro del mercato del lavoro italiano. La novità più grande riguarda proprio il record dell’occupazione, un rimbalzo dopo gli anni della pandemia. Restano le disuguaglianze territoriali e di genere che affliggono il nostro territorio.

TASSO DI OCCUPAZIONE RECORD NEL 2022

La Commissaria Gelera nel suo intervento alla Camera ha sottolineato che il 2022 è stato un anno record per il tasso di occupazione: 61%. “Il lavoro dipendente assorbe il 78% dell’occupazione totale, 6 punti percentuali in più di quanto registrato nella prima parte degli anni Duemila – ha detto la commissaria Gelera -.  La quota dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato è in crescita rispetto agli anni passati.

L’aumento dell’occupazione dipendente non trova, infatti, spiegazione nell’incremento dei dipendenti con rapporti di lavoro a termine, il cui peso sul totale, pari al 16%, risulta leggermente inferiore rispetto a quello di inizio 2020. L’incidenza del part time si colloca attorno al 18%”.

Quella del lavoro dipendente è stata una lunga marcia, una crescita continua crescita che non si è arrestata neppure a seguito della pandemia, grazie anche alle notevoli tutele introdotte dal legislatore.

OCCUPAZIONE A MACCHIA DI LEOPARDO: I DIVARI REGIONALI

Tuttavia, restano importanti criticità nel mercato del lavoro italiano. “L’aumento degli occupati si è sviluppato con una certa eterogeneità – ha detto la commissaria Gelera -. Mentre il lavoro dipendente ha recuperato i livelli precedenti la crisi, quello autonomo soffre un continuo processo di ridimensionamento iniziato prima del 2008 ed accentuatosi con la crisi del 2020.

Il mercato del lavoro italiano presenta, inoltre, forti differenze territoriali. Il Nord ha raggiunto livelli occupazionali superiori sia a quelli del 2019 che a quelli del 2007, mentre il Sud soffre ancora il ridimensionamento che ha caratterizzato, in particolare, quanto accaduto nel periodo successivo al 2008.

Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato: nonostante il recupero degli ultimi anni, il tasso di occupazione italiano risulta ancora inferiore a quello degli altri principali paesi dell’area euro.

IL DIVARIO DI GENERE NELL’OCCUPAZIONE

Il nostro paese è uno dei paesi europei con il più alto tasso di contratti a tempo determinato, soprattutto tra i lavoratori giovani. L’Istat, nel 2019, contava che circa il 29% dei lavoratori di 25-34 anni aveva un contratto a termine, quasi 10 punti percentuali in più della media europea, e 12 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione.

“Inoltre, in questa fascia di età la differenza di genere è marcata: i contratti a termine rappresentano il 27% dei contratti tra gli uomini e oltre il 31,5% tra le donne – si legge nell’allegato alla relazione dell’Inps -.

Considerata l’importanza che questa fascia di età ha per le scelte di fecondità, e il fatto che il tasso di fecondità in Italia è tra i più bassi d’Europa, è fondamentale indagare se la diffusione dei contratti a termine abbia possibili effetti sulla fecondità, e se i due aspetti interagiscano tra loro – ovvero se l’eventualità di una nascita riduca l’accesso ad un contratto a tempo indeterminato”.

PART–TIME: UNA COSA DA DONNE

Le differenze per genere in Italia riguardano anche il ricorso al part time. Il nostro paese è in linea con la media europea: tra gli uomini la quota di part time è circa l’8%, mentre supera il 30% tra le donne.

Inoltre, “il part time è stato pari al 7% tra i dipendenti pubblici a tempo indeterminato, al 26% tra i dipendenti privati a tempo indeterminato e al 45% tra i dipendenti privati a tempo determinato.

OCCUPAZIONE E FECONDITÀ: UN BINOMIO CHE VIAGGIA ALLO STESSO PASSO

Le donne sono, ancora, le più penalizzate. “A parità di caratteristiche – si legge ancora nell’analisi di Ylenia Brilli, Bernardo Fanfani e Daniela Piazzalunga – osservabili (età, status migratorio, contratto part time, settore, occupazione, sistema locale del lavoro e anno), le donne hanno una probabilità di avere un contratto a tempo indeterminato inferiore agli uomini di 1.4 punti percentuali”.

Gli studiosi vanno ancora più a fondo e mostrano come la propensione alla fecondità abbia una relazione con la presenza di un contratto a tempo indeterminato.

IL REDDITO DI CITTADINANZA

Nel 2023 l’Italia ha detto addio al Reddito di cittadinanza sostituito da nuove forme di sostegno al reddito (Assegno di inclusione e Supporto alla formazione e lavoro).  Nel primo semestre del 2021 si è raggiunto il record di percettori di Rdc, con circa 1,6 milioni di famiglie beneficiarie e 3,5 milioni di individui coinvolti.

A seguire si è innescato un trend decrescente, fino ad arrivare, nei primi mesi del 2023, a circa 1,2 milioni di famiglie beneficiarie. “Queste evidenze indicano – scrive Inps – che sono rimasti beneficiari della misura nuclei con Isee più bassi e quindi presumibilmente con minore capacità di produrre reddito”.

L’IMPATTO DELL’INFLAZIONE SUI SALARI

Nel 2022 i redditi dei lavoratori italiani hanno subito il peso di un’inflazione cresciuta a causa della crisi energetica e della guerra in Ucraina “determinando una riduzione del reddito disponibile in termini reali dell’1,2%”. L’aumento dei prezzi ha influenzato il potere d’acquisto delle famiglie in modo non uniforme “a causa della diversa composizione dei panieri di consumo e della diversa evoluzione dei redditi tra i diversi tipi di nuclei familiari”.

Inoltre, si legge nel rapporto, “per salvaguardare il potere di acquisto dei pensionati, è stato adottato il Decreto Aiuti Bis (convertito con legge n. 142 del 2022), aumentando temporaneamente (da ottobre a dicembre 2022) del 2% i trattamenti pensionistici fino a 2.692 euro mensili (35.000 euro all’anno) e anticipando al 2022 il pagamento del conguaglio derivante dalla differenza tra l’indice definitivo di perequazione del 1,9% e la stima iniziale dell’1,7%”.

LAVORATORI POVERI A CAUSA DEL POCO LAVORO

Negli ultimi anni il nostro paese ha dovuto fare i conti con la crescita dei working poors, persone che pur lavorando non riescono ad affrancarsi da uno stato di povertà. In particolare, si definiscono working poors “i lavoratori con retribuzione inferiore al 60% del valore mediano”. L’ombrello dei lavoratori contrattualizzati dovrebbero essere i contratti collettivi nazionali di lavoro. In Italia ce ne sono 966, tra questi 832 sono quelli applicati ad almeno un dipendente.

Circa l’80% dei dipendenti è coperto da uno dei 28 contratti collettivi nazionali più grandi, mentre quelli medi, che riguardano tra 10 mila e 100 mila dipendenti, coprono un restante 15%, fino ad arrivare al totale di 95% dei dipendenti. Inps definisce i lavoratori poveri come quelli che guadagnano, al giorno, meno di 24.9 euro per i part-time e 48,3 euro per i full time. In totale i lavoratori poveri in Italia sono 871.800, il 6,3% del totale. Di questi 355 sono full time e 517 mila part-time.

La maggior parte dei lavoratori poveri hanno contratti nazionali piccoli oppure non hanno affatto un contratto. Tuttavia, i lavoratori poveri tali per questioni salariali, cioè che percepiscono un salario orario troppo basso sono solo 20.300 tra i full time, lo 0,2% della platea. La maggior parte dei lavoratori poveri lavorano troppe poche ore al giorno, oppure pochi mesi nell’anno.

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