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Conte deve temere i bisticci fra Zingaretti e Renzi?

Conte

I Graffi di Damato sulla lotta fra il Pd e la neonata Italia Viva che potrebbe forse mettere in crisi il governo Conte 2

Sulla Stampa Federico Geremicca ha visto e indicato “il copione della Prima Repubblica” nei pre-vertici, vertici e quant’altro svoltisi nelle ultime 24 ore a Palazzo Chigi e dintorni alla ricerca, da parte di Giuseppe Conte, di una composizione dei contrasti nella maggioranza giallorossa sulla manovra finanziaria. Che è peraltro la stessa sulla quale dalla Commissione dell’Unione Europea sono stati chiesti chiarimenti eufemisticamente definiti tecnici, cioè sui “numeri”. Ma che il vignettista del Secolo XIX Stefano Rolli ha tradotto, con la solita ironia coniugata con la chiarezza, in questa domanda: “Chi comanda lì da voi?”.

RITORNO ALLA PRIMA REPUBBLICA

Geremicca, tuttavia, meno anziano di me, ha visto e indicato nel suo “campione” solo la parte, diciamo così, conclusiva della Prima Repubblica: quella contrassegnata dal cosiddetto pentapartito di Bettino Craxi e poi di Giulio Andreotti, ma in qualche modo, prima ancora o fra  l’uno e l’altro, anche di Francesco Cossiga, Arnaldo Forlani, Giovanni Spadolini, Giovanni Goria e Ciriaco De Mita, tenendo fuori i governi in qualche modo terminali di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi.

Più anziano di Federico, nei vertici di Conte e nuovi alleati — o “vortici”, come ci ha scherzato sopra Nico Pillinini, il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno — io invece avverto la fase intermedia della Prima Repubblica: quella seguita all’esperienza degasperiana di centro e contrassegnata dal centro-sinistra, col trattino, di Amintore Fanfani, Aldo Moro, Mariano Rumor, che sostituirono nella maggioranza e poi nel governo i liberali con i socialisti, prima che gli uni e gli altri si ritrovassero insieme, grazie a Craxi, nelle edizioni del già citato pentapartito.

Durante la lunga stagione del centro-sinistra la Dc doveva sudare le proverbiali sette camicie per comporre le posizioni di due alleati concorrenti fra di loro come i socialisti e i socialdemocratici, che reclamavano ciascuno un rapporto privilegiato col partito di maggioranza relativa: gli uni per la maggiora forza parlamentare di cui disponevano e gli altri per la più consolidata collaborazione con lo scudocrociato all’insegna dell’atlantismo e dell’anticomunismo.  È un po’ quello che per certi versi sta accadendo nella maggioranza giallorossa di Conte, dove tra le righe o sotto le foglie delle polemiche e degli scontri sulla manovra finanziaria si sta praticamente svolgendo una lotta fra il Pd e la neonata Italia Viva, creata da Matteo Renzi uscendo dallo stesso Pd, su chi debba conquistarsi più attenzione e riguardo dal Movimento delle 5 Stelle. Che ha preso per consistenza parlamentare, e conseguente “centralità”, il posto della Dc ma ha una doppia guida, diciamo così: una di Conte a Palazzo Chigi, voluto dai grillini sia nella prima sia nella seconda edizione, e una di Luigi Di Maio, ancòra capo formalmente del suo quasi partito: quasi perché non vuole essere chiamato partito, appunto. Il quale Di Maio si muove come “capo” pentastellato  fra lo stesso Palazzo Chigi, dove gli hanno lasciato un ufficio a disposizione, e la Farnesina, dove fa il ministro degli Esteri.

Anche la Dc, salvo le eccezioni, peraltro non fortunate, di Fanfani e di De Mita, che vollero fare contemporaneamente il segretario del partito e il presidente del Consiglio finendo entrambi per cadere malamente, aveva una guida doppia, al partito e al governo.

CONTE NON RIUSCIRÀ NELL’OPERA DI MORO

Il povero Moro, a Palazzo Chigi ininterrottamente dal 1963 al 1968, cercò di risolvere la concorrenza fra socialisti e socialdemocratici, spaccatisi nel lontano 1947, facilitandone l’unificazione con l’elezione di Giuseppe Saragat al Quirinale, alla fine del 1964. Ma difficilmente Conte, pur generosamente paragonato a Moro da alcuni estimatori, riuscirà a  far rimettere insieme Renzi e  Nicola Zingaretti, appena separatisi.

Rumor, subentrato a Moro alla guida del governo alla fine del 1968, non seppe tenere uniti i socialisti, che si spaccarono di nuovo l’anno dopo. E il centro-sinistra anticipato da Fanfani con l’appoggio esterno dei socialisti e realizzato organicamente da Moro nel 1963 annegò nel vortice — per tornare alla vignetta di Pillinini — degli “equilibri più avanzati” reclamati dal Psi di Francesco De Martino. Che viveva tormentato sia dalla collaborazione con gli odiati socialdemocratici sia dalla paura dell’opposizione comunista, cresciuta a tal punto da tradursi in una rottura con la Dc all’insegna del “mai più al governo senza i comunisti”. Seguirono il minimo elettorale del Psi nelle elezioni anticipate del 1976 e, sull’onda anche della sconfitta democristiana nel referendum del 1974 sul divorzio, la fase della cosiddetta “solidarietà nazionale” negoziata col Pci di Enrico Berlinguer.

Faccio, e assai modestamente, solo il giornalista. Ma forse i protagonisti e gli attori di questa avventura della maggioranza giallorossa, già in crisi vortuale, o potenziale, dopo soli 45 giorni di vita, farebbero bene a ripassarsi non dico la storia ma la cronaca politica italiana per rendersi — come preferiscono — più cauti o coraggiosi: più cauti per sopravvivere o più coraggiosi per rovinarsi.

 

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